Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2016
L’agenda economica di Hillary Clinton
Un fatto strano è accaduto alle Convention, democratica ora e repubblicana prima. I riflettori puntati sull’alta politica, l’unità dei partiti tra repubblicani (tuttora) traumatizzati dall’ascesa di Donald Trump e democratici scossi dalla rivoluzione di Bernie Sanders, hanno oscurato il tema per eccellenza sul quale si combattono le battaglie alle urne: l’economia.
Ma fra i delegati del Wells Fargo Center – e gli elettori – l’urgenza si respira tutta. E i democratici sono convinti di avere assi nella manica per spiazzare il populismo conservatore, ultra-nazionalista e protezionista di Trump, che pure oggi nei sondaggi sulla gestione economica li surclassa di 10 punti: la piattaforma del partito e i piani di Hillary Clinton hanno aperto a sinistra, sotto la pressione del “socialdemocratico” Sanders, per attirare e mobilitare i delusi dalla ripresa negli anni di Obama, con la sua “nuova normalita’” di bassa crescita e bassi stipendi.
Hanno delineato un modello di sviluppo che promette di fare i conti con la sfida della crescente diseguaglianza sociale che schiaccia i ceti medi, erodendo il sogno americano e la mobilità sociale in un Paese dove la disoccupazione è scesa sotto il 5% ma in 15 milioni soffrono di impieghi marginali. Le più recenti idee adottate da Clinton invocano una concreta correzione del cammino dell’Azienda America: aumento del salario minimi a 15 dollari, raddoppiato dai livelli attuali e più dei 12 dollari inizialmente proposti. Il college pubblico gratuito per la qualificazione dei giovani di famiglie con redditi fino a 125.000 dollari l’anno, l’80% della popolazione. Poi una crescita puntata all’interno del Paese su spese in infrastrutture e innovazione, anzitutto l’energia pulita anziché il fossile, e la difesa di severe regolamentazioni sulla finanza per evitare lo shock di nuovi eccessi e scandali a Wall Street. E all’estero su politiche commerciali più prudenti anche se non di chiusura.
Le priorità si evincono in dettaglio dai documenti fatti finora circolare. «L’America ha bisogno di un aumento» e «Un’America che funziona per tutti». Sommando i piani, questa è la carta che i democratici giocheranno a suon di slogan: cento giorni iniziali dedicati alla creazione di lavoro, con la prima legge d’una presidenza Clinton che diventi un mini-New Deal, 275 miliardi di dollari definiti come il maggior investimento in ponti, strade, manifattura, tecnologia (Internet compreso) e piccole imprese dalla Seconda Guerra Mondiale. Per le imprese aiuti al riscatto del manifatturiero e scommesse sulla trasformazione del Paese in “Superpotenza” dell’energia che rispetta l’ambiente. Ma anche il dovere di alzare quel salario minimo – 40 ore settimanali per 15.080 dollari l’anno – denunciato come sotto il livello di povertà. E incentivi al profit-sharing con i dipendenti e contro l’emigrazione di occupazione, tra cui clausole per la restituzione di sgravi in caso contrario. Per le banche regolamentazioni più stringenti in linea con la riforma Dodd-Frank. Sulle imposte sgravi e crediti a ceti medi e meno abbienti, la Buffett Rule invece per i più benestanti, che metta al bando scappatoie, imponga una minimum tax del 30% e sovrattasse del 4% ad aliquote del 43,6% sui milionari. Per famiglie e lavoratori anche lotta ai debiti universitari, con gli studenti in grado di rifinanziarli, e misure sull’eguaglianza di stipendio senza discriminazioni e assenze per maternità o malattia pagate. Sostegno ai sindacati e alla contrattazione collettiva. Rafforzamenti di pensioni e sanità, case popolari e asili nido con l’obiettivo di tetti del 10% del reddito consumato dalla cura dei figli.
Una strategia, insomma, di “Obama plus”, che rivendica continuità e espansioni della rotta seguita con fatica all’uscita dalla crisi del 2008. La sfida immediata sarà convincere gli americani che questo basta e che lei, Hillary, è il leader giusto. La sfida ancora più grande, se eletta, sarà durante e dopo i primi cento giorni mantenere fede a simili promesse: reperire le risorse, anche se il suo piano è stato votato dagli esperti come ben più sostenibile di quello di Trump (che farebbe esplodere il debito) con costi previsto in dieci anni di 1.800 miliardi compensati da entrate per 1,6-1,8 miliardi, 1,3 da nuove imposte.