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 2016  luglio 28 Giovedì calendario

In difesa degli stress test

L’Autorità Bancaria Europea (Eba) annuncerà domani sera l’esito degli stress test, gli esami sullo stato di salute delle 51 principali banche europee. L’Italia guarda con particolare trepidazione ai risultati, che rischiano di esporre le fragilità del Monte dei Paschi di Siena innescando un processo di ricapitalizzazione. In un’intervista a Repubblica, Andrea Enria, presidente dell’Eba, invita a non trattare gli stress test come una “sentenza”, ma dice che la trasparenza è il “miglior disinfettante” contro i dubbi degli investitori. Enria si difende dalle accuse che questo esercizio penalizzi in maniera particolare le banche italiane e si auspica che un esercizio simile venga svolto anche per gli istituti di credito più piccoli, in Italia e altrove.
Qual è il senso di questi stress test e perché farli ora?
«Gli stress test sono un obbligo legislativo. Abbiamo comunicato al Parlamento Europeo che li faremo ogni due anni. L’ultimo esercizio è stato condotto nel 2014, dunque è un obbligo per noi portarli a termine nel 2016. L’obbiettivo dell’esercizio di quest’anno è diverso però dal passato: non più spingere a una ricapitalizzazione immediata del sistema, ma dare un input nelle valutazioni di vigilanza che le autorità devono dare sui piani patrimoniali a medio termine delle banche. Questo rende un po’ difficile la comunicazione: è inappropriato dare un’interpretazione meccanicistica, per cui uno vede i risultati e identifica una cifra di capitale mancante».
In un momento in cui il mercato ha forti dubbi nei confronti delle banche europee non ci voleva qualcosa di più robusto rispetto a questo stress test?
«La robustezza dell’esercizio va valutata in termine dell’impatto che questo ha sul capitale delle banche, se le mette veramente alla prova. La posizione patrimoniale è in media molto solida, dunque non c’è un problema generalizzato di sottocapitalizzazione. Il punto vero è capire quali sono i punti di debolezza del sistema bancario europeo – che a mio modo di vedere sono sostanzialmente la qualità degli attivi e la bassa redditività- e come si possono affrontare. Lo stress test europeo è spesso caricato eccessivamente di aspettative. Non può essere la bacchetta magica che risolve tutti i problemi e che fornisce una soluzione a tutto. È un esercizio con i suoi limiti ma anche con i suoi vantaggi, in termini delle informazioni che dà alla vigilanza e ai mercati».
L’obiezione opposta è che avere uno stress test “incompleto” in un momento di grande volatilità sui mercati rischia soltanto di generare confusione e sfiducia. Come risponde?
«Il nostro stress test fornisce un contributo fondamentale alla trasparenza sulle esposizioni delle banche. Sul tema della trasparenza ci sono due posizioni. C’è chi dice che se c’è turbolenza bisogna evitare di dare qualsiasi tipo di messaggio perché si possono destabilizzare i mercati. C’è invece chi, come me, è convinto che è proprio nei momenti di volatilità sui mercati che è importante essere molto trasparenti per aiutare il mercato a distinguere tra banche che possono avere dei profili di debolezza da banche che invece non hanno problemi. Se il mercato non ha informazioni tende a pensare il peggio di tutte le banche. La trasparenza è il miglior disinfettante. Se ci sono dubbi che il sistema sia malato, è proprio quello il momento in cui serve più trasparenza».
Una critica che si sente molto in Italia è che questi stress test penalizzano particolarmente gli istituti con un modello più da banca commerciale, come quelle italiane, e meno le banche con maggiori attività di banche d’investimento. Che ne pensa?
«Questo tipo di critiche mi piacerebbe sentirle più quando si pubblica la metodologia e lo scenario che quando si avvicina la pubblicazione dei risultati. Non posso ovviamente commentare i dati di quest’anno, ma se uno guarda i dati del 2014, si vede con chiarezza che questa critica è infondata. Le banche con modelli di banca d’investimento hanno in generale avuto impatti molto significativi, in alcuni casi più elevati di banche con modelli tradizionali. Questa critica è riportata in Italia con un confronto con le banche tedesche, ma se uno guarda l’impatto patrimoniale sulle banche italiane e tedesche nell’esercizio del 2014, si vede con chiarezza a livello individuale e di sistema, che l’impatto è stato simile, e lievemente più forte per le banche tedesche».
Tra i suoi esami, lo stress test simula l’impatto di una forte caduta del prodotto interno lordo. C’è chi pensa che farlo per un Paese che è stato pesantemente in recessione per anni come l’Italia significa accanirsi contro un sistema che ha già sofferto, generando dei risultati irrealistici. Come risponde?
«C’è sempre questa percezione come se questi scenari venissero disegnati da un team di burocrati separati dalla realtà che vogliono infliggere pene a questo o quel Paese in maniera discriminatoria. Il processo che genera lo scenario ha salvaguardie molto estese sul fatto che lo scenario sia bilanciato. Se uno guarda anche gli scenari per singoli Paesi è chiaro che c’è un meccanismo di compensazione: i Paesi che sono in situazioni macroeconomiche meno favorevoli subiscono uno shock meno rilevante. Questo problema di distorsione nel disegno dell’esercizio lo trovo assolutamente infondato».
Il vostro stress test riguarda le principali banche europee, ma c’è chi pensa sarebbe auspicabile fare un esercizio simile anche per gli istituti più piccoli. Il Fondo Monetario ha fatto una richiesta simile per il caso italiano. È un auspicio che si sente di condividere?
«È una decisione per le autorità competenti, ma pensiamo che sia importante che un’analisi di stress test sia condotta anche nei confronti di banche di dimensioni più ridotte».
Qual è la situazione del sistema bancario italiano rispetto a quello europeo?
«Parto da alcuni numeri. Il tasso di crediti deteriorati sul totale degli attivi è del 5,7% a livello europeo e 16,6% a livello italiano. Il return on equity [un indice di redditività, ndr] è 5,8% a livello europeo e 3,3% a livello italiano. Il coefficiente di patrimonializzazione è 13,4% a livello europeo e 11,4% in Italia. Dunque tutti stanno facendo progressi, però le banche italiane sono in media un po’ più deboli soprattutto sul fronte della qualità degli attivi. I Paesi che hanno sofferto di più durante la crisi – Cipro, Grecia, Slovenia, Portogallo, Irlanda, Ungheria e Italia – hanno un ammontare di attività deteriorate più elevate rispetto ad altri».
C’è chi teme che i regolatori stiano facendo richieste eccessive in termini di requisiti di capitale e di buffer da usare in caso di risoluzione. Non trova ci sia un rischio di accanimento contro le banche?
«Dobbiamo sempre ricordarci un po’ di numeri. Durante la crisi, abbiamo impegnato più del 13% del prodotto interno lordo europeo in aiuti di Stato erogati alle banche. C’è stato il caso di Paesi come l’Irlanda che sono andati vicini al default e sono entrati in un programma di aiuto europeo per sostenere le banche, mentre gli investitori in obbligazioni subordinate di quelle stesse banche continuavano a staccare le cedole e a vedere i propri coupon pagati regolarmente. Credo ci fosse un’esigenza irrinunciabile di rivedere il sistema legislativo per la risoluzione delle crisi. È ovvio che c’è un problema di transizione, di strumenti che sono stati collocati alla clientela al dettaglio. Questo rimane un problema serio che deve essere affrontato, soprattutto dalle banche, che devono informare i propri investitori al dettaglio del tipo di strumenti che hanno in portafoglio».
Quando lunedì il mercato reagirà ai vostri risultati, magari penalizzando alcune banche, quale dovrebbe essere la reazione della vigilanza?
«Le autorità di vigilanza dovrebbero avere una comunicazione chiara con il mercato. Gli stress test danno un input nel processo di valutazione e non sono una sentenza, non possono essere meccanicamente proiettati a esigenze di capitale. È importante che le autorità spieghino questo. Se necessario, con riferimento a specifiche banche che possono essere giudicate particolarmente deboli dal mercato, le autorità dovranno spiegare se a loro giudizio c’è un problema, e in tal caso ovviamente indicarne la soluzione».