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 2016  luglio 28 Giovedì calendario

Essere il fratello del Signor Tre Stelle Michelin Massimo Bottura

Preferisce chiamarlo cuoco. «Sono legato alle tradizioni». Anche se stiamo parlando dello chef più bravo del mondo, pluripremiato dagli americani e dai francesi, per non dire dagli italiani, che pare ovvio. Insomma, del Signor Tre Stelle Michelin Massimo Bottura. Il «cuoco»: suo fratello.
Che, per intenderci, da bambino non giocava con il Dolce Forno Harbert. «Più che chef, era gourmet, sempre pronto a rubare come un gatto la pasta o il ripieno dei tortellini mentre le donne di casa li preparavano». Infanzia affollata.
«Abitavamo in questa grande casa, qui a Modena, dove a pranzo non eravamo mai meno di quindici-venti persone. Massimo era il penultimo, dopo c’è solo Cristina, ed era un piantagrane, cercava inutilmente di fare le cose con noi fratelli. Ma Marco e Andrea erano troppo più grandi di lui, io quando potevo cercavo di dargli retta». Giocavano per strada. «Mi sembrava grandissima, da poco ci sono ripassato con la macchina e l’ho vista stretta. Ai nostri tempi ci facevamo le partite di calcio, guardie e ladri, il lattaio lasciava la bottiglia sul davanzale e quando arrivava il gelataio lo prendevano d’assalto».
Erano circondati da donne. «Mamma, nonna, Ines la tata, zia Anna la zitella. Poi c’era zio Danilo che di testa stava un po’ così, ma aveva una sua vena artistica, aveva riempito le mura di cinta del cortile con i murales».
Massimo osservava, le prendeva occasionalmente quando disturbava troppo i grandi, ma ancora non manifestava nessuna inclinazione particolare. «Dopo il diploma si iscrisse in Legge con scarsi risultati. Allora nostro padre, che era severo, ma d’altra parte con quel manicomio in casa era impossibile non esserlo, lo mandò a lavorare da Andrea, nostro fratello che adesso purtroppo non c’è più. Ma Massimo era esuberante, pieno di idee e si scontrò con lui. A quel punto intervenni io. Sapevo di un elettrauto che voleva vendere la trattoria a Campazzo, in una settimana mio fratello rilevò la gestione. Grazie ai consigli di mia madre e di Lidia Cristoni, fu subito un successo».
Paolo ci portava i suoi amici e lo stesso gli altri fratelli. «Anche a me piaceva cucinare, ma non avrei mai voluto essere al posto suo, che gli toccava lavorare mentre noi ci divertivamo. Poi successe qualcosa di incredibile: Massimo espresse d’improvviso tutto il suo talento, come se avesse dormito fino ad allora per svegliarsi tutto insieme».
Ormai erano passati i tempi in cui doveva coprirlo, come quando aveva preso di nascosto la Porsche che Paolo aveva in società con Andrea. «Si era tanto raccomandato: nascondi le chiavi che sennò Massimo la usa. E infatti lui la prese e fece un incidente. Dopo il fattaccio la portò a riparare, ma me ne accorsi lo stesso per un vezzo: sul parafango mancava la firma con l’aerografo di Bonfatti, il mio carrozziere».
Pure nell’ormai celeberrima Osteria Francescana c’è lo zampino di Paolo. «Andavo in una palestra dove la moglie del titolare aveva questo ristorante che però non andava come avrebbe voluto. Avvisai subito Max: “Che ci fai al Campazzo, vieni in centro!”. Tra l’altro aveva aperto anche l’Harley, un locale dove si tirava tardi e fare su e giù era stancante».
Il resto è storia, certificata da premi, riconoscimenti, viaggi in mezzo mondo a respirare suggestioni. «I suoi piatti? Sono molto concettuali, la tradizione bisogna saperla scomporre e riproporre in chiave moderna. Lui in questo è un vero artista. Il mio piatto preferito forse è la zuppa inglese rifatta a modo suo, mentre forse quello che mi ha convinto meno è il celebrato Omaggio a Monk». Due volte l’anno va ad assaggiare il nuovo menu. «E quelle volte sono ospite. Però se vado con i miei amici pago, è giusto così».
Che Lara Gilmore, la moglie di Massimo, fosse la donna giusta lo ha capito per primo. «Dal viaggio che facemmo insieme la notte di Capodanno da Modena a Parigi. Mio fratello dormiva dietro, aveva lavorato fino alla partenza. Con lei invece chiacchierammo di tante cose. Era molto giovane, aveva una decina d’anni meno di me: mi sono accorto subito di quanto fosse intelligente, davvero una brava persona».
Il piatto che gli riesce meglio in cucina, però, Paolo Bottura non lo ha imparato dal fratello. «Sono gli spaghetti risottati, cotti con il brodo aggiunto poco a poco come il riso: li ho visti fare in tivù».