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 2016  luglio 27 Mercoledì calendario

Frank Capra, il siciliano di Bisacquino che ha conquistato Hollywood

Narrano le cronache hollywoodiane che ogni Natale il più macho dei divi, Humphrey Bogart, faceva proiettare sul suo maxischermo privato “La vita è meravigliosa”. Si accomodava sul divano, armato di fazzoletto, e guardava tutti i 131 minuti del film piangendo per la commozione. Che si tratti di realtà o di leggenda (e tra le due, nelle cose di cinema, vince sempre la leggenda), l’episodio rivela l’effetto potente che la pellicola diretta da Frank Capra ha sullo spettatore. C’è chi definisce la sua storia troppo sentimentale, buonista. E invece nella parabola del protagonista George Bailey – l’angoscia di non farcela in un mondo impietoso, la scoperta che l’esistenza di ciascun individuo fa sempre la differenza perché intrecciata con quella degli altri, in un’empatia universale – c’è una visione spirituale che trascende le singole fedi, espressione dell’umanesimo del regista. Uomo del Rinascimento piantato nel cuore del Novecento, manovale della fabbrica dei sogni che ha saputo conciliare arte e scienza, ferri del mestiere e grande narrazione. Uno che la differenza l’ha fatta, eccome.
E per avere la prova dello spessore, anche intellettuale, del personaggio, basta leggere la sua autobiografia, Il nome sopra il titolo, per anni semiclandestina qui in Italia, che torna grazie a minimum fax. Fu pubblicata dall’autore, allora settantaquattrenne, nel 1971, per «dire a chi è scoraggiato e pieno di dubbi, a chi è disperato, la stessa cosa che ho voluto dire nei miei film: “Amico, tu sei un impasto divino di fango e polvere di stelle. E allora datti da fare: se le porte si sono aperte per me, si possono aprire anche per te”». Una tesi che lega la vita di Capra alle sue opere più celebri, tre delle quali – Accadde una notte (1934), È arrivata la felicità( 1936), L’eterna illusione (1938) – gli hanno regalato l’Oscar per la regia. Per chi ha amato questi film, il memoir è una lettura indispensabile. Ma non è solo roba da fan: Il nome sopra il titolo è anche un bel romanzo di formazione con toni tragicomici alla John Fante (lo fa notare Fabio Stassi, nella prefazione italiana); un affresco holliywoodiano dipinto da un insider di lusso; un manifesto teorico- filosofico.
Sul primo fronte, l’autobiografia, Capra ci fa ripercorrere il suo il viaggio a cinque anni dalla siciliana Bisacquino all’America; la durezza dei primi anni da emigrante («odiavo essere povero, essere un contadino e vivere alla giornata facendo lo strillone a Los Angeles»); la laurea fortemente voluta in ingegneria chimica; la delusione di non trovare lavoro, causa Grande Depressione; il periodo on the road trascorso «saltando sui treni, vendendo foto casa per casa, giocando a poker, suonando la chitarra». E poi l’incontro col cinema a San Francisco, quando, disperato e senza un soldo, legge un annuncio di lavoro su una porta, con un titolo a effetto: «Grande settimana per pazzi sognatori». È di una palestra ebraica decisa a convertirsi in studio di produzione cortometraggi, lui entra, bluffa sulle sue competenze, viene assunto: «Ho avuto la fortuna di afferrare le frange di questo tappeto volante, issarmici sopra e correre verso l’avventura». Anche se molti anni più tardi, dopo aver collaborato con l’esercito con i documentari antinazisti Perché combattiamo, cambia professione a accetta un posto da manager televisivo per la AT&T, realizzando – grazie anche ai consigli del suo nuovo amico Aldous Huxley – programmi scientifici di successo. A dimostrazione dell’indole rinascimentale, leonardesca, del personaggio.
Nel mezzo di questa cavalcata tra mondi diversi ci sono gli anni d’oro a Hollywood, la scalata dalla gavetta alla gloria. Da anonimo scrittore di gag a collaboratore di Mack Sennett, padre e pioniere della commedia da grande schermo, fino all’incontro con Harry Cohn, boss della Columbia, che i successi dell’uomo venuto da Bisacquino trasformano da società di serie C a major. Ed è proprio qui che Capra ingaggia la celebre battaglia affinché la figura del regista conquisti “il nome sopra il titolo” del film. Smetta cioè di essere un supertecnico della macchina da presa e diventi il deus ex machina riconosciuto dell’opera, l’unico col diritto di firmarla. Una lotta compiuta per se stesso ma anche per i colleghi dell’epoca, giganti del calibro di John Ford – che gliene dà atto, tra l’altro, nella sua breve introduzione a questo libro, presente anche nell’edizione italiana.
E alla fine vince la sua lotta, Frank il siciliano, ottenendo la firma in testa alle pellicole, a partire da È arrivata la felicità. L’individuo, ancora una volta, ha fatto la differenza, cambiando il destino di molte persone: proprio come spiega l’angelo Clarence nella Vita è meravigliosa, quando mostra al protagonista come sarebbe stato diverso, e peggiore, il mondo, se lui non fosse mai nato. Gli exploit al botteghino però non bastano. Il regista è inquieto, vuole qualcosa di più: «Non avrei più accettato copioni scritti affrettatamente sulla mia abilità da giocoliere di fare film divertenti, mi sarei sforzato – con intelligenza – di coniugare ideali e divertimento in una storia significativa». E ancora: «Avrei vagabondato con quelli che mirano in alto e accendono candele nel vento, avrei fatto mio il risentimento di quanti sono respinti o esclusi per razza o per nascita: avrei combattuto per la loro causa». Più che una teoria del cinema, una filosofia di vita: «Da allora il tema predominante dei miei film fu il grido di ribellione dell’individuo contro il rischio di essere stritolato dalla massificazione», e in particolare dal «conformismo di massa». La rabbia e il gesto di libertà dell’agnello che, grazie all’amore e alla connessione tra individui, arriva «a umiliare il leone». Potremmo definirlo una sorta di ecumenismo solidale, un cristianesimo impastato (consapevolmente?) di buddismo: forse non è un caso che il preferito tra i suoi film per Capra sia Orizzonte perduto (1937), ambientato in una valle dell’Himalaya e intriso di misticismo orientale. Quanto ai maestri occidentali, l’ingegnere che ammira Aristotele e Thomas Edison qui preferisce citare Pascal: «Il cuore ha le sue ragioni di cui la ragione non sa nulla».
Una visione che trova la sua rappresentazione più forte nel capolavoro La vita è meravigliosa (1946), che tutti conosciamo. Favola natalizia creata, come spiega sulla pagina, per ricordare «al piccolo uomo che la sua missione sulla terra è crescere spiritualmente, perché lasciare che il suo spirito libero si arrenda ai campi di concentramento del Grande Fratello sarebbe come fare un passo indietro verso la giungla». Chiamatelo, se volete, buonismo…