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 2016  luglio 27 Mercoledì calendario

Per le pay tv il calcio è solo un costo fisso

Ai tempi d’oro di Forza Italia, quando era il primo partito italiano, i sondaggisti di Silvio Berlusconi valutavano ogni vittoria del Milan in circa 500mila voti. Ora che la politica non è più nelle priorità dell’ex Cavaliere, il calcio ha perso il suo ruolo di trampolino per la popolarità, ma è diventato solo un costo fisso. Un rubinetto in perdita che Fininvest – ancora prima di mettere in vendita il Milan – ha cercato di chiudere almeno in parte, limitando il potere di spesa di Adriano Galliani e degli altri dirigenti. Una operazione di autarchia finanziaria che, alla fine, si è rivelata autolesionistica ed è andata a colpire al cuore gli interessi di Mediaset Premium, che aveva puntato proprio sul calcio per conquistare abbonati e ripagarsi le spese. In particolare, i soldi investiti per aggiudicarsi i diritti televisivi della partite della Champions League, che – secondo gli addetti ai lavori – sono stati strapagati.
Partiamo dai numeri, che sono poi l’oggetto del contendere tra Mediaset e Vivendi. Nel corso del 2015, Premium ha dichiarato una perdita di 84 milioni: la cifra ha pesato non poco sul bilancio complessivo del gruppo televisivo di Cologno Monzese, visto che l’anno passato si è concluso con un utile netto ridotto a soli 4 milioni. Colpa dei diritti tv: per avere la possibilità di trasmettere le partite dell’ex Coppa dei Campioni dal 2015 al 2018, Premium ha pagato 750 milioni. In sostanza, 250 milioni all’anno, cui si somma una cifra analoga per trasmettere le partite della serie A sui canali della sua pay tv. Riassumendo: per il calcio vengono impegnati ogni anno circa 500 milioni, ai quali si devono poi sommare altri 100 milioni per i diritti su film e serie televisive.
Ma come rientrare dalle spese? Secondo i calcoli dell’azienda il pareggio sarebbe arrivato una volta raggiunti i 2,5 milioni di abbonati. Al momento, però, i dati di Premium parlano di una cifra che non supera i due milioni di clienti.
E qui entra in gioco il Milan. Per raggiungere il break even, Piersilvio Berlusconi – che guida il progetto della pay tv – e i suoi manager hanno puntato forte sul calcio. Del resto, ci sta: la Champions è uno degli eventi televisivi più seguiti al mondo. Peccato che l’acquisto dei diritti tv da parte di Premium abbia incrociato un momento di declino delle squadre italiane. Se fino a quattro anni fa accedevano alla Champions le prime tre classificate della Serie A, con la quarta che poteva arrivarci tramite spareggio, ora le qualificate dirette sono solo due, con la terza che deve comunque passare per lo spareggio. Risultato: nella scorsa edizione, la Lazio (terza classificata) ha perso lo spareggio, cosicché solo Juventus e Roma si sono presentate ai nastri di partenza. Questo ha fatto perdere interesse nella competizione: pesa, in particolare, l’assenza di Milan e Inter che da tre anni non riescono a qualificarsi. E, dopo la Juventus, le due milanesi sono le squadre che possono contare sul maggior numero di tifosi in Italia.
Per paradosso, gli insuccessi del Milan sono dovuti, in parte, alla politica economica della Fininvest. È stato calcolato che da quando la famiglia Berlusconi è entrata nel Milan, esattamente 30 anni fa, il costo complessivo per la gestione del club è stato di 820 milioni di euro. Ma da sei, sette anni a questa parte Fininvest non ripiana più le perdite a fine stagione, di qualunque entità siano; si limita a destinare al club una cifra che non ha più superato i 100 milioni all’anno. Potendo spendere in maniera limitata, il Milan ha cominciato a vincere di meno: l’ultimo scudetto risale a sei stagioni fa e l’ultima Coppa dei campioni addirittura a nove anni fa. Con una inevitabile disaffezione dei tifosi, come rivela il crollo degli abbonati a San Siro, che certo non ha aiutato i conti della pay tv.