Le cose cambiano, aveva scritto Pia Pera in quel meraviglioso libro che sapeva essere il suo congedo, Al giardino ancora non l’ho detto, che Ponte alle Grazie ha pubblicato con cura ammirevole. Le cose cambiano, ripeteva nelle interviste. E se un tempo l’aveva stupita il gesto della visitatrice che nel suo podere in Lucchesia raccattava i frutti marci e i baccelli anneriti, con la malattia aveva dato a quel gesto un altro valore: «C’è una grande bellezza anche in un fiore appassito, o nell’erba secca», aveva detto, col sorriso nella voce, la primavera scorsa.
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Ernesto Ferrero per la Stampa
«Al giardino ancora non l’ho detto», suona il titolo (preso da un verso di Emily Dickinson) di quello che rimane l’ultimo libro (luminoso, semplicemente bellissimo, appena premiato al Rapallo-Carige) di Pia Pera, che se ne è andata ieri a 60 anni. La malattia crudele che paralizzava progressivamente proprio chi tanto amava muoversi nel suo orto-giardino con instancabile operosità le ha impedito di annunciare alle amate piante che sarebbero rimaste orfane.
Speravamo che il congedo non avvenisse così presto, noi suoi lettori e amici che continuavamo a leggerla angosciati e commossi per la serenità, lo stoicismo zen, la grazia filosofica che aveva raggiunto. Il dialogo con la natura ha contribuito non poco. Perché era un dialogo vero, profondo, attento alla lezione di quelle persone altamente professionali che sono le piante, nutrito di sensibilità e di passione vera, di capacità d’ascolto, nemico del lenocini del design, dell’esibizionismo dei nuovi ricchi.
Pia è stata una slavista raffinata e traduttrice di grandi classici (Vita dell’arciprete Avvakum, Puskin, Cechov), una narratrice spericolata («Diario di Lo»), che all’inizio del nuovo millennio è tornata a un podere avito pressoché abbandonato, un ettaro e mezzo di terra che si è messa a coltivare da sola. Ha imparato a farsi ortolana, si è costruita competenze sempre più precise, ogni volta migliorate attraverso una sperimentazione paziente, rispettosa. Aveva la sicurezza, l’istinto di trovarci quel che cercava, in primo luogo se stessa, la comprensione e l’accettazione del ciclo grandioso della vita e della morte. Sapeva che ci avrebbe trovato, come poi è stato, la pianta rara della felicità. Ricordava un pensiero di Kafka: ci sarebbe da chiedersi non perché l’uomo abbia perduto il paradiso terrestre, ma perché non faccia nulla per ritornarci. A lui cittadino, commentava, forse sfuggiva che chiunque torni alla campagna è spinto da questo desiderio di un ritorno all’Eden.
L’Eden bisogna conquistarselo, costruirselo. Quello di Pia non prevedeva rare collezioni botaniche, piante insolite, soluzioni ardite, effetti speciali. La felicità che può dare non è l’idillio fasullo come se lo immaginano i cittadini. Nasce dalla fatica, dalla sete di conoscenza, dalla curiosità, dalla capacità di meravigliarsi di fronte agli ingegnosi portenti che si nascondono in ogni essere vegetale. Ne «L’orto di un perdigiorno» (Ponte alle Grazie, come poi i suoi libri successivi) ha raccontato con dolce, divertita autoironia il suo apprendistato. Da allora il dialogo con la confraternita dei giardinieri e degli ortolani si è fatto via via più profondo, più poetico: nei libri («Contro il giardino. Dalla parte delle piante», «L’orto che vorrei») e nelle collaborazioni giornalistiche. Ci ricordava che le esplorazioni del nostro pezzo di terra possono rivelarsi ben più ricche di quelle in Paesi lontani.
Il giardino, diceva, è il regno dell’impermanenza e vi si applica la più deperibile delle arti, eppure fare i conti con quella materia cangiante è quanto di meglio ci può avvicinare al senso dell’armonia universale. L’ultimo suo articolo è di aprile. Racconta come ai bordi di uno stagno scopre che un salice usurpatore, mimetizzandosi tra l’acero e le canne d’India, ha fatto il suo piccolo colpo di Stato. «Cosa ne sarà dell’acero? E l’acqua dello stagno, se la succhierà tutta? E con la quercia, come si metterà? Lascio ai posteri la soluzione del rompicapo». Come sarebbe bello poter dire a Pia che noi, posteri provvisori, cercheremo di comporre il piccolo golpe avvenuto nel quel suo giardino che continueremo a sentire e ad amare come nostro.