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 2016  luglio 27 Mercoledì calendario

In morte di Pia Pera

Emanuele Trevi per il Corriere della Sera
H a fatto in tempo a sorridere per la vittoria del Premio Rapallo, e poi Pia Pera ha chiuso per sempre i suoi bellissimi occhi verdi. La lenta e inesorabile catastrofe che si è compiuta si chiama malattia del «motoneurone». Il suo ultimo libro, Al giardino ancora non l’ho detto (Ponte alle Grazie), è il diario di un progressivo restringersi delle possibilità del corpo, fino alla quasi totale immobilità degli ultimi giorni, quando gli unici mezzi di comunicazione con gli amici erano rimasti i messaggi vocali di WhatsApp. È un libro indimenticabile, perché non elargisce nessuna panacea, nessuna saggezza in pillole, il male è il male, e per giunta nessuno ne sa veramente qualcosa, e la morte fa paura, perché mai non dovrebbe. Pia non è mai stata arrogante un giorno della sua vita, figuriamoci se lo diventava di fronte alla sua prova terminale, al grande enigma, al salto nel buio. Soprattutto di notte, ha paura.
Semmai, da grande lettrice di testi buddhisti e induisti, era allenata a spostare la prospettiva, a non identificarsi eccessivamente e unicamente con la percezione soggettiva, con l’Io insomma. È un lavoro difficile e incerto, ma a volte la «limpidezza dell’essere soli al mondo» si manifesta come uno squarcio di luce nella tempesta. E intorno a lei c’è il giardino, il suo ultimo capolavoro, presenza viva e benefica anche se non se ne può più occupare, costretta a contemplarlo dalla sedia a rotelle. È un luogo strano e bellissimo il giardino di Pia, nella campagna alle porte di Lucca, vera repubblica delle piante, gentile e selvatico nello stesso tempo, come possiamo immaginare gli scenari dei miti.
La scrittura sui giardini è un genere letterario molto difficile, nel quale Pia si è cimentata con tale bravura che il suo angolo di mondo è diventato celebre fra gli appassionati. L’efficacia di Pia sta nel trasmettere, al di là di tante informazioni e storie, il senso di una vocazione. Perché in effetti Pia, a un dato momento della propria vita, ancora nel fiore degli anni, aveva scelto il giardino, proprio come una volta si sceglieva di ritirarsi in un convento o partire per un viaggio senza ritorno in terre lontane.
Pia era una donna troppo libera e anticonformista per aderire completamente a qualcosa di collettivo come una fede o una filosofia della vita. Con allegria e infinita pazienza la sua religione se l’è piantata, coltivata, sarchiata. Tante cose nel frattempo Pia si era scrollata di dosso: senza mai abiurarle, perché tutte avevano avuto il loro significato transitorio. Ma dal punto di vista del giardino, è come se le cose del passato avessero meno peso. Quando la prendevo in giro ricordandole i suoi trascorsi di scrittrice erotica se non pornografica, lei comunque sorrideva. Una sua versione di Lolita dal punto di vista della protagonista le attirò le ire degli eredi di Nabokov. E poi, ovviamente, su un piano di impegno più lungo e continuato, ci sono i lavori di traduzione dal russo. Con la sua edizione di un testo mistico come La vita dell’arciprete Avvakum (Adelphi) rivelò un mondo spirituale di travolgente intensità: qualcosa di affine ai film di Andrej Tarkovskij, che Pia adorava e in effetti ha rappresentato, per la nostra generazione, l’idea stessa dell’artista supremo. Al culmine di questa attività di traduzione, metto la splendida coppia di eroi romantici: il Pecorin di Un eroe del nostro tempo (Oscar Mondadori) e l’ Eugenio Onegin (Marsilio). Pia era contenta di tutto quello che aveva fatto, ma lo pesava sulla bilancia più infallibile che esista, che è quella del distacco. E ogni cosa che aveva imparato e che fino all’ultimo aveva continuato a imparare, ci arrivava accompagnata dal dono inestimabile del suo sorriso.
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Loredana Lipperini per la Repubblica


Le cose cambiano, aveva scritto Pia Pera in quel meraviglioso libro che sapeva essere il suo congedo, Al giardino ancora non l’ho detto, che Ponte alle Grazie ha pubblicato con cura ammirevole. Le cose cambiano, ripeteva nelle interviste. E se un tempo l’aveva stupita il gesto della visitatrice che nel suo podere in Lucchesia raccattava i frutti marci e i baccelli anneriti, con la malattia aveva dato a quel gesto un altro valore: «C’è una grande bellezza anche in un fiore appassito, o nell’erba secca», aveva detto, col sorriso nella voce, la primavera scorsa.
A sessant’anni, Pia Pera ha ieri abbandonato il giardino, «semplicemente il posto dove mi sento felice». E che si era scelta dopo aver insegnato letteratura russa a Trento, aver scritto romanzi ( La bellezza dell’asino e Diario di Lo, per Marsilio), e storie che non erano né saggi né romanzi (L’arcipelago di Longo Maï. Un esperimento di
vita comunitaria, Baldini e Castoldi), e aver tradotto Puskin e Lermontov e La vita dell’Arciprete Avvakum (Adelphi). Fra gli altri, però, aveva tradotto anche Il giardino segreto di Frances Hodgson Burnett (Salani), che ha fatto dischiudere a tutte le bambine il sogno di far crescere bellezza dall’abbandono. Chissà se ha funzionato così anche per lei. Di certo, di giardini ha scritto tanto: L’orto di un perdigiorno. Confessioni di un apprendista ortolano, con cui vinse il Premio Grinzane Cavour nel 2003, Contro il giardino. Il giardino che vorrei, sempre per Ponte alle Grazie.
Poi, appunto, è arrivato il cambiamento. O meglio, prima è arrivata Emily Dickinson, e il volume Poesie religiose in cui si imbatte in una libreria di Mantova. Fra le poesie, una la colpisce, I haven’told my garden yet.
«Al giardino ancora non l’ho detto — non ce la farei».
Alla morte allora non pensava, Pia Pera. Poi, «uno che diceva di amarmi» osservò che zoppicava. Era una sclerosi laterale amiotrofica. La prospettiva cambiò di nuovo: la riflessione sulla morte, raccontava, divenne un terreno di ricerca, dover abbandonare il giardino diventava qualcosa che stava davvero avvenendo e che poteva studiare nel suo svolgersi, mentre la viveva. Non era più letteratura. Era imparare a essere «libera dalla zavorra del futuro».
In quel suo congedo pieno di grazia, Pia Pera guarda l’albicocco che soffre di gommosi, e forse sta morendo, e pensa di non essere così diversa dall’albicocco e dal giardino che si trasforma, e che un giorno si confonderà con tutto il resto. Il libro, dopo «settimane sontuose di fioritura», si chiude con un crepuscolo che «vorrebbe non finisse mai», e con un’altra poesia, stavolta di Stevenson: «Ma non vi pare brutto,/ col cielo così chiaro e azzurro,/ quando si vorrebbe tanto giocare,/ andare a letto di giorno?». Ora che anche la vita di Pia si è chiusa, per chi ha amato i suoi libri è impossibile non pensare al giardino, magari a una camelia che farà abbassare le foglie per protesta.
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Ernesto Ferrero per la Stampa
«Al giardino ancora non l’ho detto», suona il titolo (preso da un verso di Emily Dickinson) di quello che rimane l’ultimo libro (luminoso, semplicemente bellissimo, appena premiato al Rapallo-Carige) di Pia Pera, che se ne è andata ieri a 60 anni. La malattia crudele che paralizzava progressivamente proprio chi tanto amava muoversi nel suo orto-giardino con instancabile operosità le ha impedito di annunciare alle amate piante che sarebbero rimaste orfane.

Speravamo che il congedo non avvenisse così presto, noi suoi lettori e amici che continuavamo a leggerla angosciati e commossi per la serenità, lo stoicismo zen, la grazia filosofica che aveva raggiunto. Il dialogo con la natura ha contribuito non poco. Perché era un dialogo vero, profondo, attento alla lezione di quelle persone altamente professionali che sono le piante, nutrito di sensibilità e di passione vera, di capacità d’ascolto, nemico del lenocini del design, dell’esibizionismo dei nuovi ricchi.
Pia è stata una slavista raffinata e traduttrice di grandi classici (Vita dell’arciprete Avvakum, Puskin, Cechov), una narratrice spericolata («Diario di Lo»), che all’inizio del nuovo millennio è tornata a un podere avito pressoché abbandonato, un ettaro e mezzo di terra che si è messa a coltivare da sola. Ha imparato a farsi ortolana, si è costruita competenze sempre più precise, ogni volta migliorate attraverso una sperimentazione paziente, rispettosa. Aveva la sicurezza, l’istinto di trovarci quel che cercava, in primo luogo se stessa, la comprensione e l’accettazione del ciclo grandioso della vita e della morte. Sapeva che ci avrebbe trovato, come poi è stato, la pianta rara della felicità. Ricordava un pensiero di Kafka: ci sarebbe da chiedersi non perché l’uomo abbia perduto il paradiso terrestre, ma perché non faccia nulla per ritornarci. A lui cittadino, commentava, forse sfuggiva che chiunque torni alla campagna è spinto da questo desiderio di un ritorno all’Eden.
L’Eden bisogna conquistarselo, costruirselo. Quello di Pia non prevedeva rare collezioni botaniche, piante insolite, soluzioni ardite, effetti speciali. La felicità che può dare non è l’idillio fasullo come se lo immaginano i cittadini. Nasce dalla fatica, dalla sete di conoscenza, dalla curiosità, dalla capacità di meravigliarsi di fronte agli ingegnosi portenti che si nascondono in ogni essere vegetale. Ne «L’orto di un perdigiorno» (Ponte alle Grazie, come poi i suoi libri successivi) ha raccontato con dolce, divertita autoironia il suo apprendistato. Da allora il dialogo con la confraternita dei giardinieri e degli ortolani si è fatto via via più profondo, più poetico: nei libri («Contro il giardino. Dalla parte delle piante», «L’orto che vorrei») e nelle collaborazioni giornalistiche. Ci ricordava che le esplorazioni del nostro pezzo di terra possono rivelarsi ben più ricche di quelle in Paesi lontani.
Il giardino, diceva, è il regno dell’impermanenza e vi si applica la più deperibile delle arti, eppure fare i conti con quella materia cangiante è quanto di meglio ci può avvicinare al senso dell’armonia universale. L’ultimo suo articolo è di aprile. Racconta come ai bordi di uno stagno scopre che un salice usurpatore, mimetizzandosi tra l’acero e le canne d’India, ha fatto il suo piccolo colpo di Stato. «Cosa ne sarà dell’acero? E l’acqua dello stagno, se la succhierà tutta? E con la quercia, come si metterà? Lascio ai posteri la soluzione del rompicapo». Come sarebbe bello poter dire a Pia che noi, posteri provvisori, cercheremo di comporre il piccolo golpe avvenuto nel quel suo giardino che continueremo a sentire e ad amare come nostro.