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 2016  luglio 27 Mercoledì calendario

«Arrivederci a ottobre, col fresco». L’estate del 1950 a Roma raccontata da Moravia, tra camicie sudate e puzzolenti, acqua che pare brodo e figli che non sapeva di avere

Con l’estate (...) mi viene sempre la voglia di fuggire. D’estate, nelle case dei ricchi, si chiudono le finestre alla mattina e l’aia fresca della notte rimane nelle stanze ampie e oscure, dove, nella penombra, brillano specchi, pavimenti di marmo, mobili lucidati a cera.
Tutto è a posto, tutto è pulito, ordinato, nitido, perfino il silenzio è un silenzio fresco, riposante, buio (...). Ma in casa dei poveri le cose vanno diversamente. Col primo giorno di caldo, l’afa entra nelle tue stanzette affogate e non se ne va più via. Vuoi bere ma dal rubinetto, in cucina, viene giù un’acqua calda che pare brodo. In casa non ti puoi più muovere: sembra che ogni cosa, mobili, vestiti, utensili, si sia gonfiata e ti caschi addosso. Tutti stanno in maniche di camicia, ma le camicie sono sudate e puzzano. Se chiudi le finestre, soffochi perché l’aria della notte non ce l’ha fatta ad entrare in quelle due 0 tre stanze dove dormono sei persone; se le apri, il sole t’inonda e ti pare d’essere in strada e tutto sa di metallo bollente, di sudore e di polvere.
Col caldo, anche i caratteri si scaldano, voglio dire diventano litigiosi (...). Basta, uno di quei giorni, dopo aver fatto una buona litigata con tutta la famiglia e cioè con mia moglie perché la minestra era salata e bollente, con mio cognato perché prendeva le parti di mia moglie e secondo me non ne aveva «il diritto essendo disoccupato e a mio carico», con mia cognata perché mi difendeva e questo mi dava fastidio perché sapevo che Io faceva per civetteria essendo innamorata di me, con mia madre perché cercava di calmarmi, con mio padre perché protestava che voleva mangiare in pace, e perfino con la bambina perché era scoppiata in pianto, tutto ad un tratto mi alzai, presi la giubba dalla seggiola, dissi con semplicità: «Sapete che nuova c’è? Mi avete seccato tutti (...) arrivederci a ottobre, col fresco», e uscii di casa (...).
La mia casa è sulla via Ostiense. L’attraversai e, macchinalmente, me ne andai al ponte di ferro, dov’è il porto fluviale di Roma (…). Il Tevere, sotto il ponte, stretto tra le banchine, sotto i muraglioni a sghembo, pareva, anche per il colore, una fogna allo scoperto. Il gazometro che sembra uno scheletro rimasto da un incendio, gli altoforni delle officine del gas, le torri dei silos, le tubature dei serbatoi di petrolio, i tetti aguzzi della centrale termoelettrica chiudevano l’orizzonte così da far pensare di non essere a Roma bensì in una città industriale del Nord (...). Finalmente mi mossi (…). Dapprima camminai per una strada asfaltata, regolare, benché tra campi brulli sparsi di mondezze; poi la strada diventò viottolo terroso e le mondezze diventarono mucchi alti, quasi collinette. Pensai che ero capitato proprio nel luogo dove vanno a scaricare tutte le mondezze di Roma: non si vedeva un filo d’erba, ma soltanto cartacce, scatolame rugginoso, torsoli, detriti, in una luce che accecava, con un puzzo acido di fermentazione andata a male (…).
Ad un tratto, sentii chiamare «pss...pss», come si fa coi cani (...). Vidi allora, a ridosso dei mucchi di mondezza, una baracchetta che non avevo osservato, minuscola, sbilenca, con il tetto di lamiera ondulata. Una bambina bionda di forse otto anni stava sulla porta e mi faceva cenno di entrare. La guardai: aveva il viso bianco e sudicio con gli occhi segnati sotto di viola come una donna. I capelli dovevano essere pieni di festuche, lanugini, polvere: gli facevano una testa gonfia e irta come un nibbio. Il suo vestito poi era semplice: un sacco di canapa con quattro buchi due per le braccia e due per le gambe. Mi domandò, appena mi voltai: «Che sei dottore?». No – risposi —, perché? Hai bisogno di un dottore? «Perché se sei dottore – proseguì – vieni dentro: mamma sta male». Non volli insistere a dimostrargli che non ero dottore ed entrai nella baracca (...). Tutto pendeva dal soffitto: vestiti, calze, scarpe, utensili, stoviglie, stracci, ombrelli (...). Mentre chinando la testa sotto tutti quei pendagli, mi giravo di qua e di là, cercando la madre, la bambina mi indicò con gesto quasi furtivo un mucchio di cenci in un angolo.
Guardai meglio e mi accorsi che quel mucchio di cenci mi fissava con un occhio scintillante, l’altro era ricoperto da una ciocca di capelli grigi (…). Vedendomi, disse subito: «Chi non more, si rivede». La bambina scoppiò a ridere, come all’inizio di uno spettacolo divertente e si accovacciò in terra giocando con certe scatolette aperte di conserva. Io dissi: «io veramente non ti conosco (...) che hai?... Questa bambina è figlia tua?». E lei: «Sicuro... e anche tua».
Uno stralcio dell’articolo dal titolo Scherzi del caldo, uscito sul Corriere della Sera del 2 luglio 1950. L’intero racconto è disponibile su Corriere.it. Courtesy: eredi di Alberto
Moravia