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 2016  luglio 26 Martedì calendario

Mohammed, il Rambo siriano che voleva fare una strage in Germania in nome dell’Isis

Ansbach Sabato mattina, quando Mahmood finisce il suo turno al McDonald’s e torna nella Wagnerstrasse, trova il siriano affacciato al suo balconcino. «Ehi» – gli grida Mohammed Daleel con un gran sorriso – come stai? Allora? Mi aiuti a trovare un lavoro?». Quaranta ore dopo è morto. Dilaniato dai chiodi, dai bulloni, dai pezzi di ferro appuntiti con cui ha riempito la sua bomba rudimentale per ammazzare più gente possibile.
Il suo vicino pachistano quasi si giustifica. Continua a torturarsi le mani, mentre ci parla davanti all’ingresso della pensione riconvertita a centro per rifugiati dove entrambi vivevano da due anni, il Christl Hotel. «Io gliel’ho detto! Ti faccio parlare col mio capo, magari avrebbe potuto fare qualcosa», si stringe nelle spalle. Mahmood si tortura inutilmente: nessuno avrebbe più potuto fare qualcosa per Mohammed. Il 13 luglio aveva ricevuto la notizia che temeva di più. I suoi giorni in Germania erano contati: entro metà agosto le autorità tedesche lo avrebbero espulso in Bulgaria. È stato questo il detonatore, l’impulso per il suo mostruoso piano di domenica sera? Per la sindaca Carda Seidl, come ha rivelato a Repubblica, quell’espulsione senz’appello «potrebbe essere il motivo scatenante dell’attentato».
Mohammed è il primo bombarolo in Germania esploso nel nome di Allah. Nella comunità musulmana di Ansbach lo chiamavano “Rambo”. I medici gli hanno trovato schegge addosso, durante l’autopsia, cicatrici di guerra. Il ventisettenne era di Aleppo, una delle città più martoriate dalla guerra civile. «Però diceva di odiare i fondamentalisti», ricorda Massoud. «E non l’ho mai visto pregare».
A un giorno di distanza non è ancora chiaro se volesse davvero morire da martire o se qualcosa è andato storto. Il primo serio attentato jihadista nel paese di Angela Merkel è fallito. Nessun morto a parte l’attentatore, anche se ci sono quindici feriti, quattro gravi, secondo le cifre aggiornate fornite ieri da Seidl. Ma la sua minaccia di «vendicarsi dei tedeschi, rei di aver ucciso musulmani» e di fare una strage «in nome di Allah» come declama in un video trovato dagli inquirenti in uno dei suoi due cellulari, non si compie. Mohammed non mantiene la promessa del video in cui giura fedeltà ad Al-Baghdadi. L’Is, comunque, lo ha riconosciuto ieri come uno dei suoi: «È un nostro soldato», ha fatto sapere su un sito ufficiale.
Nella sua stanza del Christl Hotel, come ha riferito ieri il ministro dell’Interno bavarese Joachim Herrmann, la polizia ha trovato sostanze chimiche e materiali per costruire altre bombe. Poi, altre schede Sim per i cellulari, un rotolo di banconote da cinquanta euro. Un bottino tipico, per gli inquirenti che indagano su attentati terroristici di matrice islamica. Ma domenica sera, quando Mohammed si incammina verso il centro di Ansbach con la bomba sulle spalle per fare un massacro di tedeschi, ancora non è chiaro cosa abbia in testa.
Ansbach è una città leggendaria della Franconia. È la città dov’è morto il Kaspar Hauser, il “ragazzo selvaggio” trovato adolescente in un bosco all’inizio dell’Ottocento. Privo del dono della parola, viveva come un animale, venne educato alla civiltà e ispirò una delle opere più belle di Peter Handke. Domenica sera, Mohammed è passato anche davanti alla sua statua, con il suo zaino «gigantesco» come lo ha descritto una testimone oculare, Claudia Frosch. Pochi metri dopo la statua, il siriano ha tentato invano di entrare in una grande piazza rettangolare dove si teneva un concerto di duemila persone. Non aveva il biglietto. «Allora si è fermato davanti al bar dove stavo con i miei amici», racconta Frosch. Il bar “Eugens Weinstube”, proprio davanti all’ingresso del concerto. «Ma lo avevamo notato tutti: andava avanti e indietro, parlando al telefono ed era nervoso». Claudia decide di entrare nella vineria a prendersi la birra al momento giusto. «Appena entrata ho sentito il boato».
Ci sono molti aspetti ancora oscuri della biografia del kamikaze. Due anni fa arriva in Germania attraverso i Balcani e presenta una richiesta di asilo prima in Bulgaria, poi in Austria, infine in Germania. A dicembre del 2014 riceve la notizia che non può restare. Il motivo non ha nulla a che fare con i suoi precedenti penali per droga e aggressioni o con i suoi problemi psichiatrici. Problemi che Mohammed tenta, anzi, di far valere quando fa ricorso contro il respingimento: per due volte il siriano viene ricoverato nel 2015 per tentato suicidio. Ma controllando il database europeo delle impronte digitali Eurodac, le autorità tedesche si sono accorte che l’ex combattente ad Aleppo ha chiesto asilo in Bulgaria. E secondo le regole europee, secondo gli accordi di Dublino, è lì che deve tornare, nel primo paese che gli ha concesso uno scudo da rifugiato. Gli rifiutano lo status di profugo in Germania. E, dieci giorni fa, gli ordinano di nuovo di lasciare il paese entro trenta giorni. Un conto alla rovescia che Mohammed ha cercato di trasformare in un bagno di sangue.