Corriere della Sera, 25 luglio 2016
La banda dei nove pappagalli di casa Mursia
Bisbetici, indisciplinati, petulanti, dispettosi. Ma sotto quelle piume bianche o multicolori, batte un cuore pieno di amore filiale. Arabella, per esempio, che a dispetto del nome è un virile esemplare di Ara ararauna dalla «livrea» gialla e blu, è tenacemente convinto che Fiorenza Mursia sia sua mamma. Anche se, forse, non è ancora arrivato a dedurne che Ugo Mursia, il capostipite della casa editrice, sarebbe dunque il suo illustre nonno.
Arabella era un bebè, «e anche piuttosto brutto», precisa affettuosamente la madre putativa, quando fu acquistato 13 anni fa per fondare una nuova stirpe in casa Mursia, dopo quella dei chihuahua, dei mastini napoletani, dei bassotti, dei jack russell, degli asini, dei topini salvati dalle mandibole di pitoni e anaconde da salotto, delle galline riscattate dagli allevamenti intensivi, di una colonia di gatti fieramente liberi, ma non randagi. E certamente all’appello mancano ancora le tartarughe, i pony e i cavalli.
Esatto: i nove pappagalli, dei quali Arabella è il decano, fanno parte di un’arca di noè, ancorata nella campagna della Brianza da dove ogni giorno Fiorenza Mursia muove in macchina verso la casa editrice, a Milano, accompagnata da almeno un paio di chihuahua, orgogliosi del loro ruolo privilegiato di vigili scudieri dell’indiscusso capobranco.
Arabella, che certamente annovera nel suo albero genealogico un avo imbarcato su qualche filibusta, resta di vedetta nella sua enorme voliera e al rientro della capitana si scatena per attirare la sua attenzione e la sua benevolenza: «Brava Arabella! Brava Arabella!» si auto complimenta con voce stridula, memore degli elogi ricevuti, prima che venisse accertata la sua identità maschile. Non in tempo, però, per evitare che gli fosse affiancato un altro maschio, Clovis, poi compensato dalla presenza di Catalina. I due esemplari di Ara Chloroptera hanno avuto una figlia, che ora convive con Maracao, un magnifico Ara Macao rosso giallo e blu.
Purtroppo, dopo un’improvvida evasione dalla quale non avrebbe saputo più come rientrare se una stormo di corvi scontrosi non lo avesse ricacciato verso casa, Arabella non è più autorizzato a varcare le sbarre per volarle incontro: «Soltanto Chicco può uscire – ha stabilito Fiorenza Mursia —, perché zampetta in giro, ma non vola». Il gran ruffiano.
Già, perché Chicco è il pappagallo di riferimento dell’editore, posto sotto la sua alta protezione: un candido Cacatua dalla coscienza non altrettanto immacolata, poiché indubbiamente consapevole dell’effetto che il suo euforico omaggio mattutino alla padrona produce sui timpani del di lei consorte, Enzo Campione. «Lo chiamiamo il pappagallo urlatore – ammette a malincuore la destinataria degli scomposti schiamazzi —. Quando mi vede arrivare a colazione inizia a strillare fortissimo. E sì, se non stessi attenta, mio marito lo farebbe arrosto». Ci vuole altro per intimidire Chicco, l’impunito: «Un giorno abbiamo ospitato Quondam, il bassotto di mia figlia. Chicco è uscito dalla gabbia e dopo un po’ li abbiamo trovati seduti, uno di fronte all’altro, a guardarsi negli occhi. Paura? Macché – esclude l’editore —. Quando si spaventano, si sente la paura nella loro gola».
Ugole indipendenti e tutt’altro che influenzabili: «Nessuno di loro registra quello che tu vuoi insegnargli. Imparano soltanto quello che li colpisce». Bisogna possedere un’orchestra di nove pappagalli per apprezzare la varietà di suoni che impressiona ciascuno di loro e che sono in grado di imitare alla perfezione: «Sento i chihuahua guaire, accorro e scopro che invece erano i pappagalli. Oppure suona il citofono e non c’è nessuno. Sanno replicare benissimo anche il fischio dei falchi o il fragore di una ruspa. A volte cantano con me. La loro aria preferita è Amami Alfredo». Il meglio arriva quando sono in vena di scherzi: «Allora chiamano me con la voce di mio marito e gridano “basta!” con quella di mia suocera. Quando squilla il telefono, simulano la mia: pronto?».
Loro sì, di sicuro. A tutto.