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 2016  luglio 25 Lunedì calendario

Libero fa il bilancio degli otto anni di Obama alla Casa Bianca (e dei suoi fallimenti)

Con il tempo, le aspettative si trasformano in giudizi: più alte le prime, più trancianti i secondi. E su Barack Obama aveva visto giusto il vecchio Baget Bozzo: «Ha praticato talmente bene il primato dello spirituale», scriveva don Gianni nel 2008, in piena campagna elettorale per le presidenziali, «che da esso non possiamo dedurre nessuna conseguenza politica». Anzi, «permette a Obama di condurre alle elezioni i democratici senza aver risolto alcun problema di carattere strettamente politico. La presidenza deve essere ancora tutta scritta». Oggi la presidenza è scritta tutta, e le promesse messianiche hanno lasciato il posto a un pragmatismo spesso scolorito nel pasticcio.
Obama non è mai stato uno come gli altri: era il nero che doveva redimere secoli di razzismo, l’uomo nuovo alieno ai compromessi. È forse un po’ ingeneroso, ma anche molto giusto, ricordare che allora l’imbarazzante adorazione del vippume, delle élite e ovviamente dei giornali toccò vette che non sarebbero dispiaciute a Erdogan: endorsement preventivi di Bob Dylan, Oprah Winfrey, George Clooney, Susan Sarandon, Ed Norton, Rupert Murdoch, tutto il clan Kennedy, Stevie Wonder, Bruce Springsteen, Colin Powell, Lewis Hamilton. Perfino di Giovanna Melandri. E commentatori del Corriere della Sera spiegavano che il suo eloquio rendeva «piacevole l’elenco del telefono» e che «ogni sera la sua salvezza è una parca insalata». Beppe Severgnini metteva le mani avanti: «Finché non vedo un nero sveglio alla Casa Bianca, continuerò a pensare che un bianco mediocre possa farcela».
PENNE IN ADORAZIONE
Dopo la vittoria del nero sveglio, il quotidiano ospitava un intervento di Fareed Zakaria che annunciava come alla portata della presidenza ci fosse un traguardo marginale: «Rifondare l’Occidente». Per Vittorio Zucconi (Repubblica), ecco un presidente che «incarna non soltanto la volontà di una maggioranza elettorale, ma la voglia di spingere più avanti la storia dell’umanità».
Pochi uomini negli ultimi decenni hanno rappresentato il progressismo globalista come Obama: e il clamoroso Nobel alle intenzioni datogli nel 2009 è il suggello perfetto di come sarebbero dovute andare le cose, della piega ineluttabile e giusta che la storia avrebbe dovuto prendere sotto il suo profetico e umile comando. Cina, Cuba, Iran, Siria, Libia, Russia, Ucraina, Medio Oriente e ora Turchia ridisegnano la geografia di un mondo in cui dopo otto anni l’America conta meno e i focolai di pericolo per ciò che era l’Occidente, per noi, si sono moltiplicati.
Senza contare che il sogno di un Paese unito sotto l’uomo nero alla Casa Bianca cozza con i recenti episodi, così crudi da richiamare scene da guerra civile. Ovviamente incolpare di tutto il presidente Usa sarebbe ridicolo, ma se c’è un tratto che accompagna il suo doppio mandato è l’assenza di una Weltanschauung applicabile alla realtà e alle sue contorte pieghe. I compromessi al ribasso e i veri e propri fallimenti in politica estera sono sicuramente figli di un mondo infinitamente più incasinato di prima, ma restano tali. Un presidente che aveva predicato con afflato redentivo il «nuovo inizio tra gli Stati Uniti e i musulmani di tutto il mondo», perché «America e islam si sovrappongono, condividono medesimi principi e ideali», si è trovato con un Medio Oriente fuori controllo, la nascita dell’Isis, una Siria distrutta e i rapporti con Israele ai minimi storici. La promessa di chiudere e dimenticare le guerre di Bush è così lontana da suonare beffarda. La Siria, poi, rimarrà assieme alla Libia una spina della presidenza, nonché un’arma per gli avversari da scagliare contro Hillary Clinton, primo segretario di Stato di Barack. Se a Tripoli è infatti fallito l’intervento americano, suggello alla disfatta del velleitario tentativo di leading from behind che ha visto lo sfacelo delle cosiddette primavere arabe, a Damasco è simmetricamente fallito il non intervento, con la voce grossa iniziale contro Putin, e lo stop alle bombe imposto (anche) dal Papa che poi, per assenza di strategia, si è trasformato in un inguacchio che ha rimesso Assad tra i nemici del terrorismo islamico. Chiaro il vantaggio strategico dello zar di Mosca, molto meno quello europeo e americano.
Putin è il simbolo di una visione mancante, da parte di Washington. Nel clima pacificante e sincretista dell’avvio della presidenza, l’unico nemico vero è stato la Russia. Armi, Ucraina, Siria, diritti, petrolio: sullo scacchiere si sono ricomposti scenari da Guerra Fredda. Solo che quella vera l’America l’aveva vinta, oggi la faglia tra Est e Ovest ha una ferita aperta con margini slabbrati dalle parti di Kiev. La cacciata di Mosca dal G8, le sberle prese con le sanzioni e il rublo ai minimi non hanno segnato la sconfitta di Putin, che ha mostrato, rispetto all’America, più padronanza nel gestire le carte, diminuite per tutti.
Gli accordi con Cuba (ripresa dei rapporti) e Iran (deal sul nucleare), diversissimi tra loro, presentano un punto in comune: non è chiaro, pur trattandosi di passaggi storici, cosa guadagni l’America. Discorso non dissimile sulla Cina, dove molti, a cominciare dalla Clinton, rimproverano l’eccessiva morbidezza mostrata con Pechino sulla guerra valutaria e i diritti umani. Facilitato dal secondo mandato in cui in un presidente non ha più elezioni da riconquistarsi, aiutato dallo spappolamento del partito repubblicano (prima spaccato dal Tea Party, quindi alla prese con il rogo ideologico di Donald Trump), Obama poteva scrivere la storia, ma difficilmente sarà ricordato per averlo fatto. Il grande alleato alle porte del Medio Oriente, la scommessa dell’islam presentabile ed europeizzato, cioè la Turchia, segna un’altra recente delusione: sponsor storico ed esplicito dell’ingresso di Ankara nell’Ue, oggi Obama è costretto a chiedersi se possa rimanere nella Nato un Paese che ingabbia professori, militari, giudici in quantità industriali, sospende la convenzione sui diritti umani ed è accusato di intelligenza con l’Isis. Poi c’è la crisi. Non c’è dubbio che il tracollo di Lehman abbia acuito la voglia degli americani di cambiare dopo gli otto anni repubblicani, ma la promessa obamiana di fare il contropelo a Wall Street ha lasciato il posto al pragmatismo della Fed. Dietro i numeri della ripresa americana, ben distante dalle secche dell’eurozona, c’è però un radicale impoverimento del ceto medio (per il quale, tra l’altro, le tasse sono aumentate), che si misura nelle cifre impressionanti di coloro che non cercano più lavoro, e dunque non vanno a ingrossare le file dei disoccupati, i cui numeri si mantengono sotto ai livelli di guardia. Nell’assistere all’agonia dell’euro, l’America di Barack ha preso a sberle mai risolutive la Germania per il suo surplus commerciale (vedi caso Volkswagen) e ha imboccato la via – per ora sospesa e perdente – del TTIP: non ha fatto una scelta chiara, e quando l’ha fatta (schierandosi irritualmente per il no alla Brexit), ha perso.
Il maggior successo della presidenza è forse sul fronte culturale e ideologico casalingo. Il tweet «#lovewins» con cui Obama ha salutato la sentenza della Corte costituzionale sui matrimonio gay fa il paio col sostegno all’Obamacare, che assieme all’obbligo di sottoscrivere polizze assicurative sanitarie sussidiate impone anche quello, per i datori di lavoro, di sovvenzionare mediante tali assicurazioni anche pratiche abortive o interventi eticamente sensibili. Malgrado le resistenti perplessità economiche sul suo impatto, è su questo fronte livellatore e progressista che si misura il vero risultato della riforma, e con esso l’eredità dell’obamismo, che qui – malgrado le premesse amorevoli – entra in contrasto con una concezione non restrittiva di libertà religiosa.
I RAPPORTI COL PAPA
Con annesso peggioramento dei rapporti tra gli Usa e una Santa Sede che non può che soffrire la spinta straordinaria data da Obama all’equiparazione delle nozze gay e al confinamento dell’espressività religiosa nella mera libertà di culto. Un pontefice non ostile al dialogo come Francesco ha voluto, a Philadelphia, mettere in guardia contro chi cerca di ridurre la libertà religiosa «a una subcultura senza diritto di espressione nella sfera pubblica», naturale conseguenza di «un’epoca soggetta alla globalizzazione del paradigma tecnocratico, che mira consapevolmente a una uniformità unidimensionale e cerca di eliminare tutte le differenze e le tradizioni». Poche frasi come questa rendono il nocciolo puro dell’obamismo. Forse non è strano che dopo otto anni così spunti una nemesi buzzurra col ciuffo biondo, che del «primato spirituale» intravisto da Baget Bozzo non ha la più lontana velleità. Cosa faccia meno danni a noi, è tutto da discutere. riproduzione riservata