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 2016  luglio 25 Lunedì calendario

A che punto è l’indagine sulla morte di Regeni, sei mesi dopo

L’ultima canzone che Giulio Regeni ascoltò dal suo computer, collegandosi a YouTube, è A rush of blood to the head, della band inglese Coldplay; melodia e testo malinconici sul «flusso di sangue alla testa» da cui derivano scelte che possono rivelarsi sbagliate, anche quando pensi che siano giuste e necessarie. Erano le 19 del 25 gennaio scorso, sei mesi fa. A quell’ora Giulio spense il computer e si preparò per andare all’appuntamento dove non arrivò mai. Doveva incontrare il professor Gennaro Gervasio, un italiano trapiantato al Cairo da vent’anni, docente alla sede locale della British University; aveva insistito lui per vederlo, voleva dirgli qualcosa che riteneva importante, e Gervasio gli fissò l’incontro a una stazione della metropolitana. Così ha riferito il professore al pubblico ministero di Roma Sergio Colaiocco, impegnato nella ricerca di un movente per il sequestro e l’omicidio Regeni. Il consiglio disatteso «Il 24 gennaio Giulio mi aveva chiesto di incontrarci – ha raccontato Gervasio —, perché era entusiasta di come avanzava il suo lavoro di ricerca e voleva confrontarsi con me. Io, per ragioni di lavoro, gli dissi che non potevo incontrarlo. Anche per questo, al messaggio del giorno successivo delle 13.53 (in cui il giovane sollecitava l’appuntamento, ndr) non mi sentii di dirgli ancora una volta che non potevo incontrarlo, e rinviai la decisione di incontrarci nel tardo pomeriggio. Pensai infatti di unire la visita che volevo fare a un mio amico, per il compleanno, con l’incontro con Giulio, che lo aveva già conosciuto in altra occasione».
Poco prima delle 19 il docente mandò un sms a Giulio per anticipargli che di lì a poco gli avrebbe comunicato luogo e ora esatta dell’appuntamento. Poi, alle 19.38, la conferma: ci vediamo tra 25 minuti alla stazione successiva a quella di piazza Tahir. Alle 19.41, Regeni avverte la fidanzata ucraina che quella sera non si sarebbero potuti vedere e parlare via Skype, come facevano ogni giorno, per via di quell’incontro. Così importante da indurlo a disattendere il consiglio ricevuto dalla madre Paola il giorno precedente.
Anche con i genitori, il ricercatore friulano si sentiva spesso attraverso Skype. E il 24 gennaio aveva chiacchierato a lungo con mamma e papà. In quell’occasione Paola Regeni gli consigliò di non uscire di casa, né quella sera né l’indomani. Il 25 era infatti l’anniversario dell’inizio della rivolta popolare di piazza Tahir, una data che di anno in anno ha portato con sé nuove proteste e nuove repressioni; meglio non rischiare, dunque. Ma evidentemente Giulio aveva urgenza di parlare con Gervasio. Che cosa dovesse dirgli, quali fossero le novità nelle sue ricerche e nei contatti con il sindacato autonomo dei venditori ambulanti, è ciò che gli inquirenti romani vorrebbero scoprire per capire se c’è un collegamento con il rapimento e le torture inflitte a Regeni, prima di ucciderlo e farlo ritrovare sul ciglio di una strada, il 3 febbraio.
Anche per questo il pm Colaiocco, insieme ai carabinieri del Ros e ai poliziotti del Servizio centrale operativo, avrebbero voluto interrogare, a Cambridge lo scorso giugno, la professoressa egiziana Maha Abdelrahman, tutor dell’università inglese che seguiva le ricerche di Giulio. Ma la donna ha preferito non rispondere. Lo studio delle email recuperate dal computer del ricercatore ha indotto gli investigatori italiani a ipotizzare che la donna non abbia detto tutto ciò che sapeva. Riferì di aver visto Giulio il 14 gennaio,cioè dieci giorni dopo il rientro al Cairo dalla vacanza in Italia e in Ucraina (dove aveva incontrato la fidanzata) e undici prima della scomparsa; bevvero qualcosa al bar, facendo discorsi generici, nulla di rilevante. Nella corrispondenza con alcuni colleghi sparsi nel mondo con cui era in contatto, invece, Regeni ha raccontato di aver aggiornato, in quell’occasione, la professoressa Abdelrahman sugli sviluppi del suo lavoro, lei li aveva approvati e l’aveva incoraggiato ad andare avanti. Ma in quale direzione? E di che parlarono? Forse dei finanziamenti che il ragazzo voleva far avere al sindacato, ipoteticamente malvisti dal regime perché non si tratta di un’associazione ufficiale e dunque potenzialmente pericolosa?
I dubbi sul coinquilino Oltre alla tutor, c’è almeno un altro testimone considerato reticente dagli inquirenti; è il coinquilino Mohamed El Sayed, l’avvocato egiziano contattato tramite Facebook, che ha spiegato di aver frequentato Giulio poco o nulla nei mesi di convivenza. Al contrario, nella posta elettronica di Regeni si trovano racconti agli amici secondo cui lui e Mohamed cenavano e guardavano film insieme, andavano a fare footing, discutevano di politica. Perché l’avvocato sminuisce il rapporto? C’è qualche collegamento con le lettere anonime che lo accusano di aver indicato il ricercatore italiano alla polizia egiziana?
In assenza dei dati più volte richiesti alle autorità egiziane e finora negati, a cominciare dagli ormai famosi dati sui telefoni presenti nei luoghi della scomparsa e del ritrovamento del cadavere di Giulio, la Procura di Roma continua a lavorare sulle testimonianze che ha disposizione e sugli elementi emersi dal computer. Che hanno mostrato, oltre a qualche contatto investigativamente utili, la normalità violata di un ragazzo appassionato e vitale, che negli ultimi mesi s’era innamorato e aveva intrecciato una relazione sentimentale importante, con un curriculum già ricco di titoli ed esperienze, entusiasta delle ricerche che stava conducendo e dalle novità e prospettive che s’erano dischiuse negli ultimi tempi. Quelle che voleva raccontare la sera del 25 gennaio al professor Gervasio, il quale non vedendolo arrivare cominciò a chiamarlo dalle 19.59; la prima volta il telefono di Giulio squillò a vuoto, poi risultò spento per sempre. Forse le stesse novità che ne hanno provocato il sequestro, le torture, la morte.