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 2016  luglio 25 Lunedì calendario

La crisi in Turchia porterà nuovi immigrati?

Non ci sono solo i 7.500 arrivi in una settimana sulle coste italiane a preoccupare chi sta gestendo il capitolo immigrazione a Bruxelles. Ultimamente si sono infatti intensificati i passaggi sulla rotta Balcanica: ufficialmente era stata dichiarata «chiusa», in realtà non è così. In Serbia già da diverse settimane sono ripresi gli ingressi illegali dalla Bulgaria e dalla Macedonia. Ma il timore è che la situazione sia peggiorata proprio dal giorno del tentato colpo di Stato a Istanbul. Ne è convinto, per esempio, il premier bulgaro Boiko Borisov. Parla di una situazione «drammatica» al confine tra Bulgaria e Turchia e assicura che dalla notte del fallito golpe i suoi agenti di polizia hanno arrestato «in media 150-200 persone al giorno. Abbiamo rinforzato i controlli, ci stiamo preparando: avremo gravi problemi con i rifugiati».
Gira di nuovo tutto attorno alla Turchia, dunque. Qui, dove fino a poco tempo fa sembrava passare l’unica soluzione europea alla questione migranti, ora sono soltanto i problemi ad emergere. E il guaio è che mancano soluzioni alternative. Giorno dopo giorno crescono i dubbi sul già criticato accordo che era stato siglato a marzo, in particolare sul concetto di «Paese terzo sicuro». Una definizione necessaria per poter rispedire i migranti al di là dell’Egeo (già 850 quelli «deportati» dall’entrata in vigore del piano), che serve per individuare gli Stati in cui i rifugiati possono essere protetti. La domanda ora è scontata: dopo la repressione post-golpe, l’Ue considera ancora la Turchia un «Paese terzo sicuro»? La Commissione sembra non aver cambiato idea. «La Turchia ospita attualmente circa tre milioni di rifugiati siriani e non abbiamo indicazioni che il loro trattamento non sia quello corretto» fa sapere un portavoce dell’esecutivo europeo.
C’è poi l’altra questione, quella dei «Paesi sicuri», ritenuti tali nell’ambito delle politiche di asilo. È un concetto diverso dalla definizione di «Paese terzo sicuro». Un concetto che viene infatti utilizzato per respingere le richieste di protezione internazionale: se vieni da un posto considerato sicuro – è la logica che sta dietro alla classificazione – non c’è motivo di chiedere l’asilo. Per Bruxelles, Ankara rientra in entrambe categorie. Per gli Stati membri no.
La Commissione da mesi sta lavorando per armonizzare le procedure d’asilo. E vuole arrivare ad avere una lista unica di Paesi sicuri, in modo da rendere più semplice – e soprattutto più omogenea – la bocciatura delle richieste provenienti da quei cittadini. A settembre ha formalizzato la sua proposta per un Regolamento, che la commissione Libertà Civili del Parlamento ha approvato il 7 luglio scorso. Non solo: la Commissione ha messo anche nero su bianco quelli che per lei sono da considerare Paesi sicuri. Nella bozza scritta dal team Juncker figurano sette Stati: Albania, Bosnia Erzegovina, Macedonia, Kosovo, Montenegro, Serbia e Turchia. Il Parlamento, però, ha detto sì al metodo, ma non ai contenuti: la lista, infatti, non è stata approvata e lo scontro è principalmente sulla Turchia.
Ma come si comportano nel frattempo gli Stati membri? A oggi sono soltanto 13 i Paesi Ue che si sono dotati di una lista di «safe countries». L’unico che include la Turchia è la Bulgaria. Per tutti gli altri, tranne che per la Commissione, non è un posto sicuro. Ma su questo fronte la Babele giuridica è impressionante. La Finlandia, per esempio, è tra quelli che non hanno un elenco. Le decisioni vengono prese «per prassi». A maggio Helsinki ha varato una stretta nelle sue politiche d’asilo, considerando di fatto «sicuri» Paesi come Iraq, Afghanistan e Somalia. A giugno ha accettato solo il 10% delle richieste di protezione internazionale presentate da cittadini iracheni. Gli altri potranno tornare nelle zone occupate dallo Stato Islamico.