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 2016  luglio 15 Venerdì calendario

Per Libero è tutta colpa degli archeologi

L’indice di persistenza geoarcheologica. Ecco con chi devono prendersela i parenti delle vittime della strage dei treni in Puglia. E poi anche con una manciata di ciottoli risalenti al Musteriano o al Epigravettiano. E con alcune pietruzze lunghe non più di 10 centimetri appartenenti al «grattatoio circolare romanelliano». E con alcuni frammenti ceramici del neolitico antico, con il «calcare selcifero sotto forma di noduli» e con altre «schegge di lavorazione». In pratica devono prendersela con un po’ di ghiaia più o meno antica, sia detto con tutto il rispetto del grattatoio circolare. È questo, infatti, uno dei motivi per cui sono stati ritardati all’infinito i lavori per il raddoppio della tratta ferroviaria Andria-Corato. E questo è, dunque, uno dei motivi per cui 23 cristiani sono stati condannati a morte.
Molti si saranno chiesti: perché se i lavori per il raddoppio di quella tratta ferroviaria erano già stati finanziati nel 2007, i cantieri non sono mai stati aperti? La Regione Puglia, nei suoi documenti ufficiali, parla genericamente di «difficoltà di carattere autorizzativo». Ma quali sono queste difficoltà? Eccone qua una, ce l’abbiamo tra le mani: un rapporto di 64 pagine, con l’intestazione dell’Unione Europea (fondi Fesr 2007-2013) e della Regione Puglia, la scritta a caratteri cubitali «Ferrotramviaria Spa» e poi «Grande progetto: adeguamento ferroviario dell’aerea metropolitana Nord barese: opere di raddoppio nella tratta Corato-Andria Sud con interramento ferroviario nell’abitato di Andria». Il documento, firmato dal dottor Michele Sicolo, specializzato in archeologia preistorica, analizza le «interferenze archeologiche» che rendono difficile la realizzazione dell’opera.
E quali sono queste «interferenze archeologiche»? Eccole qui, fotografate ed esposte in bella mostra a pagina 43: «L’area è caratterizzata dalla presenza di calcare selcifero di provenienza locale sotto forma di noduli e liste non di ottima qualità e aventi spesso un apparato corticale molto spesso». Perdirdirindina: l’apparato corticale molto spesso dev’essere una cosa importante. E infatti dice che qui il progetto di raddoppio della linea potrebbe avere un impatto archeologico medio alto. In altre parole: potrebbe arrecare danno al «calcare selcifero di provenienza locale». Che, pur non essendo di ottima qualità come precisa il rapporto, deve evidentemente valere assai più della vita delle persone, perché pare trattato assai meglio. Con più attenzione, almeno.
A pagine 48 è segnalato l’altro grande ostacolo alla realizzazione del progetto: la dispersione di «frammenti ceramici» (anch’essi appositamente fotografati) in un’area limitrofa al tracciato ferroviario, oltre alla presenza di un grosso frammento (uno) di macina in calcarenite. Entrambi stanno su «su pianoro che sovrasta Lama D’Oro che rientra perfettamente nelle scelte locazionali degli insediamenti del Neolitico nel barese». C’è scritto proprio così: le scelte locazionali. L’archeologo deve aver seppellito anche la lingua italiana, con tutta la deferenza dovuta al pianoro che sovrasta la Lama d’Oro. Nessuno di questi frammenti, in ogni caso, è più grande di una pallina da tennis.
Ma è possibile che per queste pietruzze, per questi ciottoli sperduti, per questa ghiaia ammuffita si blocchi la realizzazione di un’opera così importante? Possibile che la tanto sbandierata modernizzazione del Sud debba cedere il passo di fronte all’«apparato corticale molto spesso» e al «grattatoio circolare romanelliano»? La relazione tecnica sulle «interferenze archeologiche», si capisce, è solo una delle tante pratiche burocratiche che ritardano i lavori, uno dei mille adempimenti che rendono tortuoso il cammino degli investimenti. Ma rende bene l’idea del perché in Italia non si riesca mai a completare un’opera: infatti lo stanziamento è del 2007, la relazione viene completata solo il 21 novembre 2012. Cinque anni dopo. Cinque anni a fotografare pietruzze, a compulsare mappe, a compilare schede sul «calcare selcifero» e sulle «schegge» del Musteriano (con le ovvie consulenze da pagare).
Per altro l’archeologo la prende davvero alla lontana. La relazione comincia come un reportage di Piero Angela a Quark: «Da almeno ottomila anni l’uomo, attraverso l’agricoltura e la pastorizia ha contribuito ad una drastica modificazione dell’originario ambiente vegetale, introducendo centinaia di nuove specie vegetali (si pensi per esempio alle graminacee)…». E poi prosegue per vie sempre più astruse, lungo le 64 pagine, fino ad arrivare all’indice di persistenza archeologica (IP) che è uguale al coefficiente di attrattiva territoriale (K) moltiplicato per la velocità di reazione (VR) e diviso per il tasso di modificazione (MR). Non ci avete capito nulla? Nemmeno io. Ma dopo aver pensato, come da indicazione dell’archeologo, alle graminacee (che evidentemente contano anch’esse più degli esseri umani), e dopo aver vagato un po’ nelle 64 pagine della relazione tra «processo di morfogenesi» e «sottosistema calderico», dopo essermi perso tra «testimonianze epigrafiche di contrada Scannagatta» e pietre miliari diventate «ornamento della villa del signor Filippo Musci», dopo aver approfondito ogni aspetto del «calcare selcifero» e dei «frammenti con decorazioni a unghiate» (graffi?), all’improvviso mi sono imbattuto nella formula dell’indice di persistenza geoarcheologica: IP=KxVR/MR. E allora ho finalmente capito perché si è perso tanto tempo e perché quelle persone sono morte. Per l’indice di presistenza geoarcheologica, si capisce. E da quel momento non riesco a fare a meno di considerare quell’equazione maledetta (IP=KxVR/MR) come la formula della tragedia. Probabilmente, infatti, come risultato dà il numero 23.