Corriere della Sera, 2 luglio 2016
Non è un caso che il via libera di Bruxelles allo scudo da 150 miliardi per le banche si stato reso pubblico solo dopo lo schiaffo a Deutsche Bank
La stabilità del sistema bancario, certo. Ma dietro i contatti che in questi giorni continuano sulla linea Roma-Bruxelles c’è una preoccupazione ancora più importante: la crescita. E le possibili conseguenze che i fatti degli ultimi dieci giorni – dalla Brexit al crollo delle Borse, fino alla difficoltà degli istituti di credito – possono avere in Italia sull’andamento del Prodotto interno lordo. Referendum a parte, ieri Confindustria ha tagliato le stime per la crescita di quest’anno e del prossimo. Il rallentamento degli appalti pubblici dopo la riforma di aprile potrà essere anche passeggero, come dice il governo, ma non aiuta. Ieri sono usciti i dati del fabbisogno pubblico: 27,7 miliardi nei primi sei mesi dell’anno, con un aumento di 5,8 miliardi rispetto allo stesso periodo del 2015. Il rischio rallentamento è dietro l’angolo. E per contrastarlo è necessario che le banche siano nelle condizioni di svolgere quel ruolo di sostegno all’economia reale per il quale sono nate.
La preoccupazione, naturalmente, non è solo italiana. Forse è un caso, forse no. Ma il via libera di Bruxelles allo scudo pubblico da 150 miliardi di euro per le banche italiane è arrivato domenica scorsa. Mentre la notizia è uscita su un giornale americano, il Wall Street Journal, quattro giorni dopo, giovedì. Proprio quando stavano entrando nel mirino il Banco Santander, spagnolo, e la Deutsche Bank, tedesca, che non avevano superato gli stress test negli Stati Uniti. Con la Deutsche Bank – che ha un’esposizione in derivati pari a quindici volte il Pil tedesco – marchiata a fuoco dal Fondo monetario internazionale come la maggior fonte potenziale di choc esterni per il sistema finanziario.
Eppure, per uno di quei paradossi di cui è fatta la politica, le difficoltà del sistema bancario e la necessità di un sostegno pubblico potrebbero trasformarsi in un vantaggio. In una carta in più da giocare sul tavolo della flessibilità. Proprio ieri uno studio della Banca centrale europea sottolineava come in tutti i Paesi della zona euro l’ output gap, cioè il differenziale tra il prodotto interno lordo potenziale e quello effettivo, sia doppio rispetto a quello stimato finora: il 6% invece del 2/3%. E che per questo motivo gli «interventi per stimolare la domanda aggregata, incluse le politiche fiscali e monetarie, dovrebbero giocare un ruolo ancora più importante nel mix di politica economica». Si può spingere di più sul taglio delle tasse, insomma, anche usando la leva del deficit. Senza paura di arrivare al punto di rottura, perché quel punto è molto più in là. In fondo è proprio la tesi del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, che ha pure ottenuto qualche piccolo aggiustamento sui meccanismi di calcolo del Pil potenziale. Una tesi che nell’ultimo vertice europeo, pur con grande fatica, ha cominciato a trovare qualche sponda. E che il caso banche, per paradosso, potrebbe rafforzare.