Corriere della Sera, 1 luglio 2016
Chi era Leonardo Sciascia, spiegato per bene e in poche parole
Leonardo Sciascia è stato, per la letteratura italiana, un pioniere. Ha scritto polizieschi quando la detective story suscitava ingenuamente il sospetto di essere un genere «basso» a prescindere, popolare, indegno della grande letteratura. Ha scritto romanzi-inchiesta quando il racconto-verità emanava odore di giornalismo. Ha scritto pamphlet spesso «eretici» che scatenavano dibattiti e polemiche. Sciascia era difficilmente classificabile, tra narrazione pura, reportage, racconto storico, apologo, saggismo.
Nel 1954 Italo Calvino, uno scrittore anni-luce lontano da Sciascia, consiglia ad Alberto Carocci di pubblicare per «Nuovi Argomenti» le Cronache scolastiche di quell’ignoto maestro elementare di Racalmuto, presentandolo come un «giovane letterato molto intelligente»: le Cronache sarebbero uscite l’anno dopo sulla rivista per confluire, nel 1956, nel volume di Laterza intitolato Le parrocchie di Regalpetra. Nello stesso anno, quando Sciascia propone a Calvino un altro racconto, Stalin, l’editor dell’Einaudi si dice poco convinto: «Potevi giocare di più». E aggiunge: «In qualche parte c’è troppo la cronaca degli avvenimenti storici, il resoconto di quel che pubblicano i giornali, senza abbastanza controparte di narrazione. E forse (ma lì ognuno ha il suo modo) un po’ più di partecipazione pietosa per il personaggio (vedi Cassola) per salvarlo dalla macchietta. Insomma, è un libro a cui se tu ti sentissi di lavorarci ancora, potrebbe dire molto di più. Così è piuttosto superficiale, con un sospetto di facilità».
Quella mescolanza di materiali e forse di intenzioni non piaceva a un lettore intelligentissimo come Calvino. Non gli sarebbe piaciuto, nel 1957, neanche il nuovo racconto, Il quarantotto, giudicato poco coraggioso, sociologico, deludente, facile: «Chi se ne frega del costume? (…) Oggi la letteratura dev’essere terribile». Benché lo trovi scolastico e troppo vicino al modello brancatiano, Calvino preferisce nettamente il terzo racconto, Gli zii di Sicilia, che di lì a poco darà il titolo al primo libro einaudiano di Sciascia, un trittico di racconti che Vittorini ospiterà nella collana dei «Gettoni».
«Si capisce – disse Sciascia – che mi considero uno scrittore politico. In effetti, non c’è scrittore che non lo sia. Ma lo si è in due modi: o si offre la propria “irresponsabilità” al potere o la propria “responsabilità” a tutti. Io ho preferito questo secondo modo». Sciascia è posseduto dal demone del presente, e per questo viene percepito come uno scrittore forse troppo engagé (e forse con un eccessivo retaggio neorealistico) per essere un vero scrittore (il «costume» di cui parlava Calvino…). Eresia secentesca, declino della nobiltà settecentesca, Risorgimento e spedizione garibaldina, guerra di Spagna, Seconda guerra mondiale, arretratezza siciliana, emigrazione, mafia: tutto ciò che Sciascia racconta è nel segno dell’impegno e in chiave di contemporaneità.
La sua prosa (in cui lo stesso Calvino avverte subito «una gran limpidezza di segno») non esaltava, in genere, i critici-critici. Mancava di letterarietà, andava troppo al sodo, senza eccessive ricercatezze stilistiche. Sciascia era l’anti-Gadda, si interessava troppo al mondo, alla società, alla politica per essere interessato anche alla letteratura, il mondo o la mente umana gli si potevano anche presentare indecifrabili e barocchi com’erano agli occhi di Gadda, ma a differenza del Gran Lombardo, il siciliano Sciascia è rimasto fedele a quell’andamento paratattico di cui parlò, molto precocemente, l’amico Pasolini. Mentre per Gadda la scrittura doveva rappresentare e mimare la complessità inestricabile del mondo, per Sciascia doveva non semplificarla, ma ridurla all’essenziale: la sua scrittura finiva per sfidare pericolosamente il grottesco che era nelle cose. Nella famosa intervista con Marcelle Padovani, intitolata La Sicilia come metafora (1979), Sciascia parlò di una «ragione che cammina sull’orlo della non ragione». L’opera di Sciascia si sviluppa in questa tensione tra ragione (illuministica) e oscurità della non ragione, declinata come irrazionalità del Male o enigma cupo del Potere.
È dopo aver letto Il giorno della civetta che Calvino coglie al meglio la maniera di Sciascia e così gli scrive il 23 settembre 1960: «Sai fare qualcosa che nessuno sa fare in Italia: il racconto documentario, su di un problema, con vivezza visiva, finezza letteraria, abilità, scrittura sorvegliatissima, gusto saggistico quel tanto che ci vuole e non più, colore locale quel tanto che ci vuole e non più, inquadramento storico nazionale e di tutto il mondo intorno che ti salva dal ristretto regionalismo, e un polso morale che non viene mai meno». Soffermandosi sull’illuminismo, che nell’opinione comune della critica accomuna Sciascia e Calvino, quest’ultimo fa però dei distinguo, avvertendo in sé una tendenza al «fantastico-romantico, non-sense» e in Sciascia un più radicale «carattere di battaglia civile». E però precisa: «Ma tu hai, subito dietro di te, il relativismo di Pirandello, e il Gogol via Brancati, e continuamente tenuta presente la continuità Spagna-Sicilia: una serie di cariche esplosive sotto i pilastri del povero illuminismo (…)».
L’osservazione di Calvino andava acutamente a toccare lo stile proponendo all’amico una chiave evolutiva per le prove a venire: «Io mi aspetto sempre che tu dia fuoco alle polveri, le polveri tragico-barocco-grottesche che hai accumulato. E questo potrà difficilmente avvenire senza un’esplosione formale, della tua levigatezza compositiva».
La previsione-suggerimento di Calvino si sarebbe avverata non tanto sul piano auspicato, quello formale (in cui Sciascia rimane fedele a se stesso), ma sul piano della visione, con l’approdo alle allucinazioni del Contesto e di Todo modo. La vera esplosione del non-fiction novel, tra testimonianza cronachistica e ricostruzione storica, si verifica nell’innescare in esso la miccia mostruosa delle congetture: quelle congetture visionarie su innocenza e colpevolezza, su verità e menzogna necessarie a raggiungere nel profondo una possibile verità o almeno a far emergere, dietro le presunte certezze e gli stereotipi, i fantasmi dei fatti in fuga, «in una conseguenzialità immaginativa o fantastica indefettibile» (sono parole sue). La perfezione di questa verità sfuggente, ambigua e ipotetica, sostiene Sciascia, «può essere dell’immaginazione, della fantasia; non della realtà». Strano caso di scrittore illuminista, Sciascia, che dietro la «levigatezza compositiva» nasconde ombre spesso davvero, come voleva Calvino, terribili.