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 2016  luglio 01 Venerdì calendario

Chi è, realmente, Francis Bacon? Prova a rispondere una mostra a Monaco

Deve ancora compiere 18 anni Francis Bacon (Dublino 1909-Madrid 1992) quando, nella primavera del 1927, lascia Londra per Parigi, dove apprende il francese e scopre Picasso. Nella Ville Lumière torna molte volte e prende anche uno studio (al 14 di rue de Birague, nel quartiere Marais). Autodidatta («Il genio che non sapeva dipingere»), Bacon guarda ad Ingres (tradizione), Cézanne (tecnica), Van Gogh («il senso della tragedia»), Courbet (nudi), Bonnard, Degas, Monet, Soutine, Seurat e Picasso (colore), Rodin (corpo umano), Giacometti (disegno): «Sono come un tritacarne attraverso il quale passa di tutto», dice. Arte, ma anche letteratura. Soprattutto la poesia romantica, simbolista e modernista: Baudelaire, ma anche Eliot.
Dalla capitale francese al Principato di Monaco. Qui, nel 1940, lo raggiunge la notizia della morte del padre, capitano di fanteria, col quale non aveva rapporti da tredici anni, da quando era andato via di casa. A Monaco ritorna nel ’46 e vi risiede per lunghi periodi (nel ’49 affitta Ville Souka-Hati e, poi, Ville Frontalière) sino agli anni Sessanta. Il Principato catalizza il suo interesse per il corpo. Inoltre, proprio qui comincia la sua ossessione per il Ritratto di Innocenzo X di Velázquez («Lavoro contemporaneamente su tre abbozzi» scrive il 10 ottobre 1946, dall’Hôtel Ré, all’amico Graham Sutherland): dura circa 25 anni e si traduce in una cinquantina di «variazioni» sul pontefice. Stranissimo che Bacon compri tutte le riproduzioni fotografiche del dipinto del 1650, ma che una volta a Roma non voglia vedere l’originale alla Galleria Doria-Pamphilj.
Per lui, Monaco vuol dire gestazione di futuri lavori, ma anche casinò («Il gioco è una creazione artistica»). Perde una fortuna e quando resta senza denaro per comprare le tele, dipinge sul retro di quelle che ha già. L’ultimo soggiorno nel Principato risale al 1990.
Qual è stata l’influenza monegasca e francese nell’opera di Bacon? Una domanda, questa, cui cerca di rispondere la rassegna – che si apre domani, sabato, al Grimaldi Forum di Monaco (sino al 4 settembre) – di circa 80 lavori (1950-1987), a cura di Martin Harrison, intitolata Francis Bacon, Monaco e la cultura francese (catalogo Albin Michel).
Figure in movimento, autoritratti, studi del corpo umano, paesaggi, frammenti di Crocifissione e ritratti (talvolta la violenza si coniuga con la solitudine) e così via. Ferocia della pittura e paradosso del tragico e del soave: ecco i binari sui quali si muove Bacon, esponente (assieme a Lucian Freud, Michael Andrews, Frank Auerbach, Walter Richard Sickert) della cosiddetta Scuola di Londra. Figure distorte e aggredite in maniera quasi isterica (aspetto legato alla sua omosessualità). Per Bacon, dipingere è un atto inconscio. E, infatti, nei suoi quadri si avverte il desiderio di autodistruzione, così come nella vita tempestosa e disordinata di tutti i giorni (un vero miracolo che abbia vissuto 83 anni). Vita dorata nei bassifondi, la biografia di Daniel Farson a lui dedicata, aiuta a capire: storia e aneddoti di un’esistenza travagliata, divisa fra arte e delinquenti; fra arte e ragazzi di vita, rimorchiati qua e là (due si suicidano poco prima dell’inaugurazione di altrettante mostre). Un confronto con Pasolini? A Bacon è andata meglio. Probabilmente, questo spiega, in parte, come l’artista sia diventato una sorta di fabbrica di passioni.
Si vedano, in questa esposizione monegasca, le deformazioni del ritratto di Innocenzo X. La «belva» di Bacon è rintracciabile nel volto, in ogni piega della porpora e delle braccia: una pittura scostante, angosciosa. Operazione al massacro? Forse. Anche l’orrore di vivere può diventare leggenda e la bellezza, gelida e vitrea, ripugnante.
Chi è, realmente, Francis Bacon? Un Oreste «le cui Erinni si sono appena pacificate», un Amleto «che si ricompone subito dopo il confronto con lo spettro», un don Giovanni «per niente più superuomo di quel vigliacco del suo servo ma che rifiuta di servirsi dei suoi muscoli per sfidare l’inferno cui l’aveva destinato il Commendatore», un Maldoror «metà angelo e metà orco che riprende fiato dopo avere pronunciato la lunga bestemmia dei suoi Canti», un Falstaff «che gli stravizi hanno lasciato giovane quasi come all’epoca in cui era paggio del duca di Norfolk», come scrive Michel Leiris nel suo Bacon di faccia e di profilo? Forse, un po’ la somma di Oreste, di Amleto, di don Giovanni, di Maldoror, di Falstaff.
E, al tempo stesso, un frequentatore dei casinò e dei luoghi di perdizione di mezzo mondo che si serve della pittura come di un tragico gioco d’azzardo.