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 2016  luglio 01 Venerdì calendario

Se non si investe con tassi d’interesse vicini allo zero, quando mai lo si farà?

Se non si investe con tassi d’interesse vicini allo zero, quando mai lo si farà? Ridotta al nocciolo, la questione di fondo dell’economia italiana (ed europea) è tutta qui. Il livello degli investimenti ha toccato nel 2015, secondo la Banca d’Italia, il minimo storico nel rapporto con il Prodotto interno lordo (Pil): il 16,6 per cento. Qualche segno di ripresa c’è, ma dalla crisi finanziaria a oggi la caduta è stata superiore al 30 per cento. Anche questo spiega come mai il nostro Paese non sia ancora riuscito a recuperare i livelli di reddito del 2008. Il Pil è ancora al di sotto di otto punti percentuali, mentre la Germania è al di sopra di cinque. Nonostante gli interventi del governo – dal super ammortamento, allo sconto sull’Irap e quello promesso sull’Ires, ai diversi incentivi – le imprese sono frenate da una serie di fattori di instabilità, accresciuti con la Brexit. Eppure la loro propensione a investire – come segnala il Centro studi della Confindustria – è elevata in rapporto al valore aggiunto che però, nel manifatturiero, è cresciuto lo scorso anno solo dello 0,6 per cento. La dimensione ridotta delle aziende è tuttavia un ostacolo. La governance pure. Lo dovrebbe essere meno il credito, vista l’abbondanza di liquidità. Ogni euro investito nelle aziende manifatturiere fa salire il Pil di due, del doppio. Gli investimenti diretti esteri sono in ripresa, ma l’acquisto di imprese italiane prescinde spesso da legami territoriali e crea reddito e lavoro altrove.
«Lo stock di capitale italiano – spiega l’economista Gianfranco Viesti – si riduce, al netto delle abitazioni, in termini assoluti. E quei pochi investimenti che facciamo non sono sufficienti nemmeno a contrastare il deperimento normale degli impianti». Ci siamo già mangiati un pezzo di futuro senza accorgercene.
Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha giustamente insistito sulla necessità di rilanciare la produttività, scesa anche lo scorso anno e prevista in modesto recupero nel 2016 (ma siamo sempre nel recinto infernale degli zero virgola). E posto gli investimenti tra le priorità dell’azione dell’esecutivo. Senza i quali la produttività, stagnante in Italia dal 2000, non migliora. Il sottosegretario all’Economia, Claudio de Vincenti, ha assicurato che il Paese spenderà, nei prossimi sette anni, 90 miliardi tra fondi europei e nazionali, di cui 11 solo quest’anno. Bene.
Sorge, a questo punto, una domanda: perché l’enfasi sugli investimenti non ha contraddistinto i primi due anni del governo? La spiegazione più banale, e forse un po’ maliziosa, è che, al pari dei tagli di spesa, non generano consensi immediati. I bonus, anche quelli inutilmente costosi, sì o almeno dovrebbero. La decontribuzione decrescente, prevista dal Jobs act, ha creato 215 mila nuovi posti di lavoro sul cui costo singolo qualche riflessione sarebbe opportuna. Un deciso abbassamento del tasso di disoccupazione è però legato unicamente alla dinamica degli investimenti. I quali hanno una duplice qualità: fanno salire subito la domanda e sostengono, nel tempo, la crescita, in lavoro e reddito. Ciò vale per quelli privati e per quelli pubblici. Questi ultimi sono crollati anche per ragioni legate al debito. Si è preferito sacrificarli anziché tagliare la spesa improduttiva. Cioè segare il ramo sul quale siamo scomodamente seduti. Sono crollati da 921 euro pro capite nel 2009 a 559 nel 2014. La Germania è a 735.
Il governo sta studiando diverse misure. Dal rinnovo del super ammortamento, che costa 800 milioni l’anno, con l’ipotesi di aumentarlo per le attività legate alla ricerca, alla possibilità di indirizzare il risparmio privato verso impieghi produttivi con i cosiddetti Pir (Piani individuali di risparmio). «Il risparmiatore che sceglie, per un periodo sufficientemente lungo, un fondo specializzato nel finanziare le piccole e medie imprese – spiega Fabrizio Pagani, capo della segreteria tecnica del ministero dell’Economia – potrebbe essere totalmente esente dal pagamento del capital gain al momento del riscatto della propria quota». Il vantaggio fiscale concesso agli imprenditori che rafforzano il capitale aziendale (Ace, Aiuto alla crescita economica) non ha funzionato. Verrà rivisto.
L’esclusione degli investimenti dal calcolo del deficit sarebbe un segnale europeo di grande saggezza, come ha di nuovo suggerito il ministro dello Sviluppo, Carlo Calenda. «La flessibilità ottenuta per la clausola investimenti – è il ragionamento di Pagani – riguarda solo quelli pubblici. Se si potesse estendere agli incentivi per favorire gli investimenti privati, il beneficio sarebbe assolutamente straordinario». Che cosa manca? Una consapevolezza maggiore, potremmo dire culturale, della classe dirigente in generale. La distrazione è colpevole perché rivela una egoistica sottovalutazione delle condizioni di vita delle prossime generazioni.
Un’analisi preziosa per un dibattito pubblico più approfondito si ricava dalla lettura di un libro appena pubblicato dell’economista Riccardo Gallo ( Torniamo a industriarci, Guida editori). Gallo individua l’inizio della caduta degli investimenti e l’avvio del deterioramento della competitività italiana nel biennio 1998-99. Per le cause note, non ultimo lo smantellamento, sotto la pressione della Commissione europea, di tutti i principali strumenti di intervento pubblico nell’economia, oltre che la perdita della leva del cambio. Nessuna nostalgia, ma il Paese, a suo giudizio, non ha riflettuto in profondità sull’opportunità di adottare misure alternative. Si è passivamente adeguato. Due le proposte di Gallo. La prima: rivedere l’assetto istituzionale delle autorità di regolazione di mercato di reti e servizi. Le tariffe sono troppo alte, penalizzano gli utilizzatori industriali, ingrassano le società erogatrici. La seconda: il governo faccia un passo più rivoluzionario sugli ammortamenti. Consenta alle imprese industriali di ammortizzare tutti i nuovi investimenti, con coefficienti liberi e superiori ai massimi fiscali, nel biennio 2017-2018. Una misura choc, dal costo per l’Erario non indifferente ma recuperabile negli anni successivi grazie ai maggiori utili prodotti. Una dose da cavallo, sperando che il cavallo, cioè l’economia del Paese, beva e corra un po’ più veloce.