Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  giugno 24 Venerdì calendario

Harry Potter, 007 e i Rolling Stones. Ecco cosa resterà del Regno Unito

Non soltanto l’Ue sarà l’unica unione a parlare la lingua – l’inglese – di uno Stato che non ne fa parte. Il Regno Unito era il software dell’Occidente: il luogo dove si formano le idee, le musiche, le saghe, i personaggi, la cultura materiale e immateriale che dà gusto alle nostre vite. Forse, ora che ha vinto il Leave, l’addio, non cambierà nulla; forse ci ritroveremo tutti più poveri.
Chi ha teorizzato il sorpasso degli Stati Uniti sulla Gran Bretagna nella battaglia del «soft power» non tiene conto che molte cose a volte considerate americane – pure i Rolling Stones, per i giovanissimi che si accostano alla musica dei padri o dei nonni – sono in realtà inglesi; e grandi artisti americani, come Stanley Kubrick (forse il più grande regista di tutti i tempi) scelsero l’Inghilterra come patria di elezione.
Alcuni miti dello scorso decennio sono un po’ invecchiati. Beckham e le Spice Girls. Robbie Williams e il Manchester United, che senza Alex Ferguson non è più lo stesso. Il ciuffo di Hugh Grant e il broncio di Kate Moss. Gli emiri arabi e gli oligarchi russi, Abramovic contro Berezovskj, spie e omicidi con il veleno. La morbidezza di Kate Winslett e la magrezza di Keira Knightley. La City che compra Piazza Affari e Briatore che si trasferisce, come pure Valentino Rossi inseguito dal fisco. Il Millennium Dome, il London Eye, i vecchi docks sul Tamigi riconvertiti in case per borghesi bohemienne. Tony Blair e la terza via tra liberismo e socialismo. Sulla swinging London dei primi anni Duemila ha picchiato duro la crisi finanziaria e il fallimento strategico e morale in Iraq.
Poi ci sono i sempreverdi. La fiaba globale di Harry Potter, che è appena stata portata a teatro, con le polemiche degli animalisti indignati perché sul palco venivano liberati gufi veri, sostituiti con gufi robot da quando uno è fuggito. I romanzi di Ian McEwan e di Hanif Kureishi, padre pachistano e madre inglese. La famiglia reale, a cominciare dalla regina novantenne e dai suoi amati nipoti, che ovviamente non si sono espressi ma essendo naturaliter conservatori in cuor loro speravano nel Remain. James Bond, affidatosi per sopravvivere a Daniel Craig che, con la sua espressione da rude edile balcanico, ai tempi dello scozzese Sean Connery avrebbe fatto il killer della Spectre. Elton John, che continua a cantare e a fare baruffa con chiunque non sia d’accordo con lui. I miti precoci degli One Direction e dei Coldplay. La leggenda dei grandi scienziati, dallo Stephen Hawking de «La teoria del tutto» ad Alan Turing, il genio che decifrò il codice dei nazisti ma fu perseguitato in quanto omosessuale («The imitation game»).
Nel decennio d’oro, quello passato, non era neppure necessario venire a Londra, a studiare alla London School of Economics o a passare un fine settimana low cost. Era Londra che veniva da te. Tutti i miti letterari inglesi in questo tempo sono diventati film: Narnia, Alice nel paese delle meraviglie, Jack lo squartatore – interpretato da un Johnny Depp oppiaceo —, Sherlock Holmes, Frankenstein, Orgoglio e pregiudizio e ovviamente Shakespeare (lo splendido «Shakespeare in love» di John Madden vinse sette Oscar); e Russell Crowe è diventato Robin Hood per la regia dell’inglese Ridley Scott. Colin Firth, umiliato da Bridget Jones, si è preso la rivincita dieci anni dopo conquistando la nuora in «Matrimonio all’inglese».
Emma Thompson e Liz Hurley non erano mai state così belle, Amy Winehouse pareva la voce di Dio, Elisabetta I aveva il volto di Cate Blanchett (da giovane) e di Judi Dench (da anziana), Elisabetta II veniva messa in scena nei giorni della morte di Diana – «The Queen» – e Vittoria negli anni di formazione – «The young Victoria» —; e Notting Hill non era più solo un quartiere ma un film.
Londra è stata nei nostri anni la capitale della cultura giovanile, del teatro, della musica – Oasis, Radiohead, Blur —, della pubblicità – Saatchi&Saatchi —, del design – Sir Terence Conran —, del linguaggio. I migliori si sono trasferiti qui: l’australiano Murdoch, l’americana Gwyneth Paltrow, il friulano Capello. Damien Hirst diventava l’artista più noto al mondo mettendo in formalina gli squali e rafforzando il mito della Tate Modern – che ora ha aperto la sua nuova ala – Lewis Hamilton vinceva il Mondiale di Formula 1 a 23 anni, Susan Boyle pareva il brutto anatroccolo, lo stilista Alexander McQueen inventava le scarpe armadillo indossate da Lady Gaga. E anche scrittori e artisti già affermati al tempo del thatcherismo hanno continuato a dare il meglio di sé, Sting non ha sbagliato un disco, Martin Amis un romanzo, Ken Follett un best-seller, Vivienne Westwood una sfilata. A un tratto, grazie a Jamie Oliver, parve che gli inglesi fossero diventati persino i migliori cuochi; il che era francamente troppo.
C’è stato poi un momento, alla fine dell’era Blair, in cui il motore di Londra pareva inceppato. Tony in effetti è imbolsito: l’hanno nominato inviato europeo in Medio Oriente ma non ci è andato quasi mai, è finito sotto processo per la guerra in Iraq, ha rotto con Murdoch che ha scoperto la sua amicizia con la sposa cinese; e in «The ghost writer», il film di Polanski – un altro che ha avuto i suoi guai – l’ex premier è diventato un bello senz’anima, subornato dalla moglie a sua volta eterodiretta dalla Cia. Ora il laburismo vecchio e nuovo è in crisi, Corbyn nella campagna refendaria non ha toccato palla, solo il sacrificio di Jo Cox ha smosso i vertici del partito che teme ora di perdere voti popolari a vantaggio di Farage. E i conservatori non sono sempre stati degni di Margaret Thatcher, che appena diventata leader dei Tories nel referendum del ’75 fece campagna perché il Regno Unito restasse in Europa, a presidiare il continente; come nella storia ha sempre fatto.
La grande crisi, prima che dalla politica, è arrivata dalla finanza. La Northern Rock è stata la prima banca a crollare, trascinando con sé la City e le Borse europee. Il resto è stato conseguente. Il grande calcio inglese non vince più. Amy Winehouse se l’è portata via la droga, McQueen si è suicidato. Susan Boyle cerca un lavoro da 7 sterline l’ora perché si sente sola; per fortuna Adele sta facendo una tournée trionfale. Oggi per cercare il nuovo volto di Londra bisogna inoltrarsi in quelli che una volta erano i bassifondi della città, nella Whitechapel che fece da sfondo ai delitti di Jack the Ripper e ora ospita la galleria pubblica più innovativa, e imboccare il Brick Lane, la via delle cento nazionalità, dove sono miste anche le coppie di poliziotti: un bianco e un nero, un inglese e un asiatico. Broker francesi, banchieri cinesi, dj giamaicani, camerieri messicani, marocchini, cingalesi, uomini d’affari di diverse generazioni e origini si godono l’happy hour – altro fortunato articolo di esportazione – conversando di referendum ai tavolini dei caffè, sulle panche dei ristoranti orientali, sui divani dei disco-pub. È la metropoli multietnica sempre meno british degli ingegneri indiani e dei sushi-bar talvolta prenotati da mesi, dei deputati bengalesi e del sindaco pachistano figlio del conducente di autobus. Il voto di ieri è anche un rigurgito identitario.
Londra era la vera capitale d’Europa, e dopo il successo delle Olimpiadi è diventata la città più visitata al mondo, superando Parigi e New York (Roma non è neanche nelle prime dieci). Il tennis a Wimbledon, il nuoto di resistenza a Hyde Park, il beach-volley a Whitehall, l’equitazione a Greenwich: la vecchia capitale dell’Impero ha dato una lezione di come vanno fatti i Giochi nell’era post-gigantismo. E Paul McCartney fece cantare il nuovo stadio olimpico con Hey Jude. Sarebbe stato bello che tutto questo fosse rimasto europeo. Ma sarà comunque impossibile portarcelo via.