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 2016  maggio 31 Martedì calendario

Quant’è bella la merda (ma solo se in edizione numerata). In giro per i musei di New York

L’occasione era irripetibile. Fare il solito check up (di strada) sulla mia salute e andare a vedere il cesso d’oro di Cattelan, collocato non in una sala del Guggenheim, ma proprio nella toilette, a disposizione dei bisogni dei visitatori. Da anni mi sono dato un vincolo: rinuncerò al mio viaggio annuale a NY di audit politico-economico-culturale, quando non sarò più in grado di raggiungere a piedi (solo andata) dal Mercer (Soho), ove soggiorno, il Guggenheim (80 blocchi). Per quest’anno prova superata. Le mie giornate sono dedicate ai tre marcatori scelti: all’arte contemporanea, a cibo/cucina, a finanza/business/politica. Per scelta, incontro solo persone perbene e delle classi media o povera, nessuno delle élite, anche perché loro mai vorrebbero incontrare me.
Impraticabile «Agitprop!» (al Brooklyn Museum), una curiosa mostra d’altri tempi, vicina al mondo operaio della mia giovinezza. Un mondo scomparso, solo la classe operaia francese sta facendo un’ultima lotta stile cavalleria polacca contro il carro armato-job act di Hollande. Quando sarà sconfitta dai cannoni ad acqua di Valls, si butterà definitivamente a destra, nelle braccia dei populisti, pardon degli xenofobi, come chiama le opposizioni Napolitano. Questi sprovveduti operai francesi non hanno capito nulla, non essendoci più il lavoro, il job act non può essere una riforma del lavoro, ma un banale modo per dare aiuti di stato ad altri, a spese loro. Il loro destino è segnato, se ne facciano una ragione.
Invece, al Met Breuer, «Unifinished: thoughts left visible», i curatori si sono posti una domanda strategica: quando un’opera d’arte è compiuta? Lo fece già Plinio il Vecchio. Qua di casi ve ne sono 197, da quelli incompiuti per dipartita dell’artista, a quelli ove l’incompiutezza è ricercata, perseguita, trovata. Anche nel management (o nel sesso, che è poi la stessa cosa) c’è la cultura dell’incompiutezza, quando il petting ottusamente non si accoppia con l’execution.
Non ho rinunciato al «Transitional object» la casa fienile di Psyco Barn (Hitchcock) sulla terrazza del Metropolitan, una vista mozzafiato, inferiore solo a quella a 360° del palazzo dell’Opus Dei a Roma, adiacente a Palazzo Farnese. In psicologia, il titolo indica i cosiddetti oggetti di transizione, per esempio il classico orsacchiotto che aiuta il bimbo a staccarsi dal seno materno. Collegandola ad «Agitprop!», serve a ricordare al lavoratore il dovere civico, se richiesto, di staccarsi dalla sua retribuzione passata, e attaccarsi al seno del reddito di cittadinanza futuro. Ma il clou del viaggio nasceva da un’intuizione di cui rivendico il copyright. I 90 barattoli di Piero Manzoni (30 grammi di merda originale, venduta al prezzo di mercato dell’oro di quel giorno, 21 maggio 1961) mi hanno sempre affascinato. Essendo curioso, se ne avessi comprata una (oggi valgono 70.000 ) non avrei resistito ad aprirla. Feci bene, nel 2008 Bernard Bazile, un giornalista francese, aprì la sua, la presentò in alcuni musei di Parigi. Dentro c’era una seconda scatoletta, più piccola ma identica, e con la stessa dicitura (merda d’artista, in più lingue), numero e firma originale. Lì si fermò. Il mistero resta, sarà mica una matrioska? Nell’ultima scatoletta la merda ci sarà?
Dopo 55 anni non potevo mancare all’appuntamento del Guggenheim, Cattelan chiudeva un ciclo, adesso la merda di Manzoni aveva finalmente trovato il suo cesso, per di più d’oro. Chioserebbe un sociologo di regime: questa è l’età dell’oro, quella del benessere diffuso. Non c’è dubbio che le due opere siano influenzate dai celebri ready-made di Marcel Duchamp, sul Manzoni del ’61 ho ricco archivio di ritagli e simbolismi d’epoca. Per spiegare la scatoletta furono toccati tutti i tasti culturali, dall’ironico, al concettuale, al politico, al sociale, a Freud.
La conclusione mi pare ovvia: il mercato oggi è disposto ad accettare e quotare anche la merda, purché sia in edizione numerata, garantita da un notaio, certificata da un audit anglosassone. E sia smaltita in modo politicamente corretto, meglio attraverso un cesso d’oro. Un solo dubbio. Chi avrà il coraggio di tirare lo sciacquone?