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 2016  maggio 30 Lunedì calendario

La nuova ondata di migranti dal Burundi. Un caso di cui nessuno parla

Una crisi silenziosa quella del Burundi che non fa notizia – o poco – sul mainstream dell’informazione, sommerso dai flussi di migranti provenienti dalla Siria e da altri teatri di conflitto in Medio Oriente e in Africa. Eppure il paese è teatro di violenze. È passato un anno dalla decisione del presidente Pierre Nkurunziza – in violazione aperta della Costituzione e degli Accordi di Pace di Arusha – di candidarsi a un terzo mandato. I mesi prima e dopo la sua vittoria elettorale del 21 luglio scorso sono stati tra i più violenti della storia del paese dei Grandi Laghi, già protagonista di una guerra civile ventennale.
“Oggi in Burundi vige un clima di calma apparente, una sorta di tregua. In realtà c’è paura di parlare, autocensura e rassegnazione. Per noi giornalisti raccontare il quotidiano diventa sempre più difficile. Le fonti vogliono rimanere anonime. Gli introiti pubblicitari per la stampa sono ai minimi storici e l’economia in generale è ferma. In questo momento nessuno vuole venire ad investire qui”. Contattato a Bujumbura, esordisce così Léandre Sikuyavuga, vicepresidente dell’Osservatorio della stampa burundese: “In diverse zone del paese la tensione è palpabile (…) ogni giorno si registrano ancora violenze e arresti, ma il flusso dei migranti in uscita è diminuito”, prosegue Sikuyavuga, che come giornalista lavora a Iwacu, l’unica testata quotidiana indipendente ancora aperta, oltre alle due radio tornate operative da poco, Rema Fm e Isanganiro.
Da due mesi i finanziamenti diretti bilaterali al governo di Bujumbura sono congelati, a cominciare da quelli del primo donatore, l’Unione europea, che continua a fornire aiuti urgenti ai burundesi. “Già in condizioni normali le famiglie hanno difficoltà a sbarcare il lunario, figuriamoci adesso. Il rallentamento dell’economia ha fatto perdere posti di lavoro, causando un ulteriore impoverimento della popolazione. Chi ci riesce varca i confini dei paesi vicini. Solo una minoranza ottiene un visto per andare in Europa”, dice ancora la nostra fonte che denuncia “i passi indietro preoccupanti compiuti dal Burundi su tanti fronti”.
Si sono chiuse le consultazioni politiche di Arusha, con la mediazione dell’Uganda e dell’ex presidente della Tanzania Benjamin Mpaka, ma il processo che dovrebbe portare le parti in lotta a dialogare appare tutto in salita, anche per via della mancata partecipazione della principale coalizione di opposizione, il Cnared.
Ad alzare il sipario sul paese dimenticato della regione dei Grandi Laghi sono operatori umanitari e Ong. Tra aprile 2015 e febbraio 2016 le Nazioni Unite hanno registrato almeno 474 decessi direttamente collegati alle vicende politiche (700 secondo la Federazione internazionale dei diritti umani, Fidh), 36 sparizioni forzate, 600 denunce di tortura o maltrattamenti e 5000 detenzioni arbitrarie. Per l’Alto Commissario per i diritti umani dell’Onu, Zeid Ra’ad Al Hussein, “sono numeri scioccanti che dimostrano chiaramente l’uso ricorrente della tortura da parte delle forze di sicurezza governative”. In realtà si tratta di stime al ribasso, della punta dell’iceberg che nasconde una quantità invisibile di altre vittime. Le stesse fonti Onu hanno riferito di “molteplici difficoltà sul terreno che impediscono di lavorare serenamente. Corruzione, terrore diffuso tra la popolazione, omertà istituzionale e scarsa presenza di organismi indipendenti internazionali”.
A causa di questo scenario, almeno 270.000 burundesi hanno già scelto l’esilio: normali cittadini, ma anche politici, giornalisti, esponenti della società civile e difensori dei diritti umani. Fino all’inizio del mese un migliaio di persone scappava ogni giorno, per lo più donne giovani con bambini.
In base agli ultimi dati diffusi dall’Unhcr, si registrano mille arrivi settimanali in Tanzania, 500 in Uganda, 230 in Rwanda e 200 in Repubblica democratica del Congo. I burundesi in Tanzania sono ormai 131.834, 73.926 in Ruanda, 22.330 in Uganda, 21.186 in Rdc e 1.197 in Zambia.
L’agenzia Onu non ha riscontrato “significativi miglioramenti delle condizioni di sicurezza e dei diritti umani sul campo”, temendo che il deterioramento della situazione economica possa innescare “ulteriori spostamenti” della popolazione.
È altrettanto complessa la situazione nei campi profughi dei paesi di accoglienza, che stanno raggiungendo i limiti in termini di capacità. Scarseggiano acqua, cibo, istruzione e assistenza sanitaria, come conseguenza della carenza di fondi. Finora l’Unhcr ha ricevuto solo il 3% dei 175,1 milioni di dollari richiesti per la risposta umanitaria in Burundi nel 2016.
Un’altra fonte preziosa di informazione sulla crisi dimenticata sono i burundesi della diaspora, rifugiati in Europa, soprattutto in Francia e Belgio. Tra questi anche importanti ex cariche dello Stato ed ex membri del partito di maggioranza in dissenso aperto con Nkurunziza. Per citarne solo due: Gervais Rufykiri, vicepresidente della Repubblica e Pie Ntavyohanyuma, presidente dell’Assemblea nazionale.
Da Parigi ci racconta invece la sua storia la giornalista in esilio Elise Ngabire: “Ho cominciato ad avere problemi con le autorità dopo aver scritto che non c’erano più spiragli di dialogo in seguito alla formazione del governo del terzo mandato di Nkurunziza, nell’agosto 2015. I miei articoli e la testata Iwacu sono stati screditati dal potere. Poche ore dopo la pubblicazione di una nostra risposta agli attacchi subiti, sono stata inseguita da agenti dei servizi segreti e sono scampata all’arresto. Quel giorno me lo ricorderò per sempre, era l’11 settembre 2015 – spiega Elise – i miei vicini di casa mi hanno avvisato che la strada era stata chiusa e che agenti in uniforme stavano cercando una giornalista”, racconta la cronista rimasta nascosta a casa di parenti per una settimana prima di ottenere un visto per la Francia all’ambasciata di Bujumbura. “Vivo qui nella Casa dei Giornalisti mentre i miei figli sono rimasti in Burundi con i nonni. È difficile stare lontana da loro ma tengo duro e quando posso scrivo. Ho ottenuto lo statuto di rifugiato quindi vuol dire che per cinque anni non potrò rientrare in patria. La situazione lì è molto brutta ma se ne parla poco e poi non vedo soluzioni all’orizzonte”, continua la giornalista quarantenne che prima dell’esilio era responsabile della rubrica politica del gruppo d’informazione indipendente. “Qui sopravvivo con meno di 400 euro al mese (un contributo dello Stato francese, ndr). Trovare un lavoro nel mio settore è impossibile, neanche uno stage. Mi faccio coraggio pensando ai miei figli e a tutti quei burundesi ammassati nei campi profughi nei paesi africani limitrofi, in condizioni disumane. Per fortuna qui a Parigi siamo un bel gruppo di burundesi e ci sosteniamo a vicenda”, dice ancora la Ngabire. “In Burundi i media vengono distrutti, la libertà di espressione è calpestata e i giornalisti sono costretti all’esilio. Che democrazia è questa? La nostra missione è quella di dire la verità, di informare il pubblico e fare da ponte tra autorità e cittadini. In alcun modo vogliamo attaccare gratuitamente le istituzioni ma quando non lavorano come dovrebbero e le cose vanno male, non possiamo fare altro che parlarne”, conclude.
I primi di maggio il direttore di Iwacu, Antoine Kaburahe, è stato premiato dal comune di Parigi, in partenariato con Reporter senza frontiere (Rsf). Il giornalista, uno degli “eroi dell’informazione 2016” è rifugiato in Belgio dallo scorso novembre, dopo essere stato accusato nel suo paese di coinvolgimento nel tentato colpo di stato del 13 maggio 2015. Il gruppo Iwacu viene sostenuto da numerose prestigiose testate europee, tra cui Le Monde, attraverso una campagna di raccolta fondi.
Hanno messo su una campagna di crowdfunding per poter rendere la propria testimonianza itinerante anche i giovani burundesi della diaspora che hanno deciso di documentare la crisi che scuote il paese attraverso il sito www.enfantsdupays.net. “L’obiettivo di questa piattaforma è quello di raccontare la storia di questi ‘ragazzi del paese’ che si erano espressi a favore del rispetto della Costituzione della Repubblica del Burundi e degli Accordi di Arusha. Uccisi per aver detto ‘No al terzo mandato’. Vuole raccontare i loro sogni, le loro sfide e denunciare la loro morte ingiusta e prematura. Questi martiri sono stati uccisi dalle stesse mani a cui avevano affidato il potere esecutivo, proprio quelle che dovevano essere garanti del loro benessere e della loro sicurezza durante gli ultimi dieci anni: il Presidente Pierre Nkurunziza e il suo governo (…). Le preoccupazioni per la sicurezza sul terreno però non possono essere ignorate; alcuni casi sono più sensibili, più difficili da affrontare. Per questo motivo i nomi dei testimoni nelle storie sono stati modificati. Ci siamo assunti la responsabilità di occuparci soltanto di quei casi che non ci mettono direttamente in pericolo. Siamo profondamente rattristati per la perdita di vite umane provocata dalle ambizioni egoistiche di una sola persona e dal mantenimento al potere, con l’uso della forza, di un sistema corrotto moralmente, economicamente e politicamente (…)”.
Dalla rete alla realtà: lo scorso aprile hanno organizzato a New York una mostra con ritratti dei burundesi morti per la libertà, realizzati gratuitamente da studenti di arte.
Dietro i numeri e i bilanci ci sono vite cancellate. Quelle di Charlotte Umugwaneza, Epimaque Ndayiragije, Théogène Niyondiko, Innocent Gahiro, Pascal Mpfubusa, Arnaud Nkurunziza e di tanti altri la cui storia viene raccontata sul sito.