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 2016  maggio 30 Lunedì calendario

La rivoluzione del Museo Egizio di Torino ha funzionato

Quando venne in gita tra le mummie sabaude, il primo agosto 2013, Christian Greco aveva 38 anni e uno zainetto: più che un cervello di ritorno era una specie di bagaglio a mano. Conosceva il greco antico, il latino, l’egiziano classico, un po’ di ittita e non poco accadico. Parlava inglese, olandese, francese, tedesco e un po’ l’arabo. Per pagarsi il dottorato all’Università di Leiden, per sette anni aveva dato ripetizioni di greco e latino in olandese, e quel giorno d’agosto era già responsabile della sezione egizia del Museo di Leiden, aveva scritto una quantità di pubblicazioni internazionali alta così, aveva svolto attività di epigrafista a Luxor per l’Università di Chicago e insomma era un capoccione, con lo zainetto ma un capoccione. Seppe che il Museo Egizio di Torino cercava un direttore e che c’era già il bando: candidati 101, conoscenze personali zero. Fece domanda online, cliccare non costa nulla. «Mai nella vita pensavo di avere qualche possibilità». E invece.
E invece il direttore del più antico museo egizio al mondo si chiama Christian Greco ed è lo stesso Christian. «Bello che ogni tanto anche in Italia possa succedere quello che è successo a me». Cervello ritornato dopo 17 anni all’estero, «ma quella definizione mi sembra restrettiva, i ricercatori italiani sono bravissimi e viaggiano, qualcuno poi torna, il problema è che nelle nostre Università gli stranieri non vengono quasi mai. Ci facciamo attirare ma non sappiamo attrarre».
In undici mesi di lavoro, il direttore ha tirato fuori dallo zainetto un piano di allestimento scientifico da 810 pagine, il numero esatto lo ricorda bene Evelina Christillin, presidente dell’Egizio e già signora delle Olimpiadi. «Il dottor Greco aveva cento concorrenti, molti dei quali con curricula prestigiosi, però li ha letteralmente sbaragliati. Con rispetto parlando, scegliendo lui abbiamo avuto le due c: coraggio e culo».
Ecco, appunto. A volte sono sinonimi: «Verissimo, perché davvero la fortuna va da chi non ha paura. Con Christian abbiamo lavorato tantissimo, mille e ottanta giorni per rifare l’Egizio completamente, senza chiuderlo al pubblico neppure per un minuto, sgobbando per 16 ore al giorno sette giorni su sette». Il risultato è un Museo di indicibile bellezza, visitato da un milione di persone negli ultimi dodici mesi, passato da 4.500 metri quadrati a 10.600, cinque piani con 3.200 oggetti esposti, 50 milioni di euro di spesa, 9,9 milioni all’ultimo bilancio, 810mila euro messi da parte per quattro nuovi progetti proiettati verso il bicentenario del 2024. Invece del palazzone dove si portavano, e a volte deportavano, i bambini torinesi, piazzandoli davanti ai vecchi armadi con le mummie impolverate e le targhette scritte a macchina, ora c’è uno spettacolo che racconta la civiltà più affascinante della storia. «Bisogna parlare alla città sempre di più, ma anche ai nativi digitali: ai ragazzi, non solo ai bimbi delle elementari e delle medie» dice il direttore. Poi ci porta nella tomba di Kha, l’architetto del faraone. «Scendiamo nel pozzo insieme a Ernesto Schiaparelli?». Volentieri, se non fosse che Schiaparelli andò là sotto il 15 febbraio 1906, e che “là sotto” sarebbe Deir el-Medina, dalle parti di Luxor.
«La realtà virtuale aiuta la realtà reale, guardate lì». Tra i 550 oggetti trovati nella tomba, dietro i sarcofagi di Kha e della moglie Merit c’è uno schermo e nello schermo una fotografia in bianco e nero che diventa tridimensionale, poi si trasforma in un film. Come in un videogame si scende appunto nel pozzo, si attraversano pareti di pietra, si spalanca la porta e si vede quello che apparve quel giorno a Schiaparelli. «Mi emoziono sempre anch’io», confessa il direttore. «Abbiamo chiesto all’Istituto dei Beni Archeologici e Monumentali di Catania di scansionare le vecchie foto, si tratta di lastre di 110 anni, e di renderle immersive. Poi abbiamo realizzato modellazioni tridimensionali dei reperti e il risultato, beh, eccolo». Il film in bianco e nero si colora d’improvviso e si può girare attorno agli oggetti, dentro la tomba. Guardare cose vecchissime con occhi nuovissimi può non essere uno slogan. «Noi lo abbiamo definito un nuovo inizio». Christian si china e raccoglie una cartaccia, poi fa strada verso la Galleria dei Re allestita da Dante Ferretti. La luce di un cielo stellato picchia sulla pietra bianca del faraone Horemheb, si posa sul viso nero e levigatissimo di Ramesse II, “…per sei mesi interi ho visto questa statua ogni giorno, e si può dire che me ne sono innamorato“scriveva Champollion nel 1824. Fascino può essere una parola chiave anche per il direttore con lo zainetto: «Pure in Olanda, per le mostre sugli Egizi c’era sempre la coda. La forza evocativa e narrativa di questa civiltà è intatta, qui la useremo in un modo che non deluderà. Il nostro primo obiettivo è la ricerca: vogliamo diventare il più grande museo egizio al mondo, non solo una grande collezione. La ricerca dev’essere l’agenda nel nostro Paese nel settore pubblico e in quello privato. L’Italia ha il maggior numero di articoli scientifici pubblicati, a fronte del minor numero di denari investiti. Non è sostenibile». La signora delle Olimpiadi e delle piramidi annuisce: «Il nostro museo deve diventare il più importante centro di ricerca mondiale sugli Egizi. Vuoi sapere tutto sui semi? Vai alle Svalbard. Vuoi sapere tutto sugli Egizi? Vai a Torino».
La sala di Kha, la numero 6 al primo piano, ha una piccola targa di plexiglass sul muro: “In memoria di Giulio Regeni, ricercatore presso University of Cambridge”. Giulio Regeni, morto in Egitto e ancora non si sa come, non si sa perché. «Era giusto farlo», dice la Christillin. È domenica pomeriggio e qui dentro bisogna farsi largo come allo stadio. L’Egizio è anche una rappresentazione popolare, un grande romanzo. «Proporremo le mostre senza paura di mescolare i generi», spiega il direttore. «Ci sarà spazio per cinema, arte, fotografia, letteratura. Un museo dev’essere dinamico, deve conoscere la propria forza narrativa».
Sparigliando un po’ le carte, la mostra temporanea “Il Nilo a Pompei” racconta le visioni d’Egitto nel mondo romano. «Nessuno più della nostra cultura ha un rapporto millenario con gli Egizi, nell’antica Roma c’erano addirittura tredici obelischi». Anche tra i reperti del Museo Archeologico di Napoli («Dobbiamo insistere di più sulla collaborazione tra musei, enti e università») compaiono schermi al plasma che ridanno vita al passato grazie alle tecniche della realtà virtuale. I visitatori si fermano a gruppi davanti al monitor dove la villa di Octavius Quartio prende forma, cresce la vegetazione nei giardini e zampilla l’acqua dalle fontane. Poi, l’eruzione. La pioggia dei lapilli e dei sassi, il rumore dell’apocalisse che coprirà ogni bellezza. «Non è solo una spettacolarizzazione, è un racconto. Al museo si entra anche per farsi narrare una storia, per conoscere bene i personaggi, per sapere come va o come non va a finire». E qui finisce anche la nostra, di storia, nell’Italia vista dal Giro d’Italia, tra questa bellezza antichissima che pare nata ieri: un po’ assomiglia al posto in cui, non senza fatica, tutti viviamo. Un posto affollato di cose, di contraddizioni e di energia. Un Paese magnifico e difficile, pieno di gente che ci prova.
(22 – fine)