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 2016  maggio 27 Venerdì calendario

In macchina con il genio. Memorie dell’autista di Stanley Kubrick

Al posto dei passeggeri, sui sedili posteriori, un enorme fallo di ceramica. Per le strade di Londra, in quel freddo 1970, ghiaccio, neve e un uomo solo alla guida, il tassista Emilio D’Alessandro da Cassino, precipitato in Inghilterra dieci anni prima per sfuggire al servizio militare, innamorarsi, sgobbare, sognarsi pilota di macchine da corsa e inquadrarsi poi, senza iniziale consapevolezza su obiettivi e durata della battaglia, come autista nell’esercito di Stanley Kubrick. Amico fidato, consigliere e fratello acquisito del più grande regista del 900, D’Alessandro era molto più di un semplice driver.
Nell’avvicinarlo e nel dipingere una tela in cui alla grandezza della narrazione si affiancano la nostalgia, il rispetto che non confina mai con l’enfasi, e un controllo ammirevole della materia, Alex Infascelli ha scelto i colori giusti. S is for Stanley non possiede niente di più né niente di meno di ciò che dovrebbe avere un ottimo film. Una storia chiara. Un uomo al centro dei propri ricordi. Il suo racconto biografico che illumina gli angoli in ombra della personalità del suo alter ego, il geniale Kubrick, visto dall’angolo privilegiato di una prossimità che cambiando qualche lettera si tramuta in ossessione.
Migliaia di biglietti, richieste di aiuto, appelli. Migliaia di foglietti con la grafia minuta di Kubrick, indirizzati non al signor D’Alessandro, ma soltanto a Emilio perché Stanley, lo avvertì il primo giorno Andros Epaminondas, braccio destro dell’autore di Odissea nello spazio: “Detesta i formalismi e odia le cravatte”. Per trent’anni, senza cravatta, ma con il proprio pezzo di omerica fatica quotidiana, D’Alessandro strinse con Kubrick un nodo non scioglibile e rispose assertivamente a ogni richiesta. Fu ovunque. Sui set. In casa. Per strada. In archivio. Nelle gabbie degli animali tanto amati da Kubrick e in mezzo agli uomini, agli attori, ai collaboratori che conoscevano il linguaggio dell’autore di Barry Lyndon e Shining. Un alfabeto che D’Alessandro introiettò fino a diventare indispensabile.
Infascelli, vincitore del David di Donatello per il miglior documentario dell’anno, deve aver attraversato lo stesso stato “di forte isolamento” che il custode Jack Torrance interpretato da Nicholson provò nelle praterie dell’Overlook Hotel. Ha lavorato a S if for Stanley per tre anni. Ha seguito D’Alessandro persuadendolo ad aprire il suo scrigno pieno di targhe, magliette e reliquie. Ha fatto sì che lui e Janette, la moglie conosciuta nei primi anni inglesi, si fidassero della sua cinepresa: “E con lei, che al principio mi detestava e mi vedeva come l’ennesimo invasore che veniva a rubargli tempo dopo Kubrick, è stata dura”. Li ha ripagati con l’onestà dello sguardo. È stato ricompensato con un film prezioso che ora, distribuito da Wanted-Feltrinelli Real Cinema e prodotto da Kinethica, sarà anche al cinema (solo) il 30 maggio. Dalla famiglia Kubrick ha invece ricevuto un silenzio che, dice Infascelli: “Credo significhi soprattutto che persino i parenti stretti si stiano ancora interrogando sulla reale natura del rapporto tra D’Alessandro e Kubrick”.
Una relazione senza recinti in cui il telefono squillava senza sosta, l’appartenenza era assoluta e il tempo di Emilio, la sua stessa esistenza, era una variabile dipendente dalle esigenze di Kubrick: “Una missione volontaria e non un sequestro di persona – dice Infascelli – perché è vero che il loro è stato un matrimonio e qualsiasi monogamia somiglia a una forzatura innaturale, ma è vero anche che Emilio voleva davvero stare con Stanley perché la vicinanza gli faceva conoscere mondi di cui ignorava l’esistenza, lo appagava e lo nutriva mettendogli a fianco un padre che lui non aveva mai avuto”.
Nel preparare S is for Stanley, Infascelli ogni tanto si è smarrito: “Scegliere una strada invece di un’altra non è stato semplice”. Alla fine, di fronte alla moltiplicazione delle opzioni, ha optato per la sottrazione. Il risultato, impressionante, è l’assoluta aderenza della vita di Emilio D’Alessandro a quella di Kubrick: “Perché in un certo senso, Emilio è stato Stanley non meno di quanto Stanley sia stato Emilio”.
Ora il garage di Cassino: “La pancia della balena” con le memorie condivise, le giacche di scena, le targhe, le magliette, le lettere, le fotografie e il primo coltello di Kubrick: “Quello degli scout con le proprie iniziali che Stanley gli regalò” diventeranno un altro film o una serie tv.
Infascelli ci sta lavorando con Lorenzo Mieli di Wildside e cerca un attore che – in mancanza dei sosia naturali passati a miglior vita, Hoskins e Lemmon, possa degnamente interpretare D’Alessandro. Se non si dovesse trovar nessuno di credibile, ci sarebbe sempre Emilio, attore occasionale in Eyes Wide Shut come estremo omaggio di Kubrick alla fedeltà del suo amico negli ultimi giorni della propria esistenza e miglior attore protagonista in S is for Stanley. A suo agio al centro della scena. Nelle lacrime e nell’allegria.
Sul set di Shining, racconta D’Alessandro: “Nicholson amava sniffare cose strane dal palmo della mano e in macchina con me fumava sigarette che si arrotolava personalmente e che quando scendeva mi facevano scoppiare la testa”. D’Alessandro avvertì Kubrick: “Mi mette a disagio, preferirei non incontrarlo più”. E il regista – che conosceva il senso delle priorità rispose: “Non lo dovrai più vedere”. Così andò. Senza altre conseguenze.