Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2016
Finalmente il petrolio ha superato i 50 dollari al barile
A una settimana esatta dal vertice Opec, il petrolio ha finalmente riguadagnato il sospirato traguardo dei 50 dollari al barile, anche se con fatica e solo temporaneamente. Molti osservatori che aspettavano con ansia questo momento sono stati beffati dal fuso orario: la soglia è stata violata quando in Occidente era notte e i mercati erano chiusi. Nella seduta ufficiale il rialzo per un po’ è durato, consentendo al Brent e al Wti di spingersi rispettivamente a 50,51 e 50,21 dollari, il massimo da oltre sei mesi. Ma le quotazioni si sono progressivamente afflosciate: in chiusura il greggio del Mare del Nord valeva 49,59 $/barile, il riferimento americano 49,48 $, entrambi in leggero ribasso rispetto al giorno prima.
Poco importa, in definitiva. Il petrolio ha già recuperato quasi il 90% rispetto ai minimi da 12 anni che aveva toccato soltanto a gennaio, quando la discesa sotto 30 dollari aveva scatenato pronostici nerissimi, con Goldman Sachs che paventava addirittura uno scivolone sotto «quota 20». Anche se tuttora il barile vale la metà di quanto era costato per anni, fino all’estate del 2014, gli attuali livelli sono già sufficienti a rassicurare almeno una parte dei produttori, senza peraltro urtare troppo le tasche dei consumatori. Il grande interrogativo è che cosa succederà nei prossimi mesi.
Una toccata e fuga nell’area dei 50 dollari di certo non basta per spostare gli scenari di mercato. Ma se questi livelli dovessero essere sostenuti e poi magari superati, c’è la possibilità – secondo alcuni analisti – che lo shale oil negli Stati Uniti provi a rialzare la testa: uno sviluppo che potrebbe finire col soffocare il rally. Pioneer Resources, che opera nell’area di Permian, una delle più redditizie per lo shale oil, aveva dichiarato ad esempio che avrebbe rimesso in funzione 10 trivelle se il greggio fosse tornato in modo stabile a quotare oltre 50 dollari (si veda il Sole 24 Ore del 30 aprile). Altri produttori hanno detto di aver bisogno di un recupero a 60 dollari, ma comunque non a 100 dollari, livello che nei prossimi anni nessuno più si aspetta di rivedere.
Gli analisti di Citigroup evidenziano la presenza nelle aree di shale oil di numerosi pozzi perforati ma ancora in attesa della fratturazione idraulica: il completamento sarebbe economico con il greggio a 50 dollari, mentre per creare altri pozzi ci vorrebbero 60 dollari.
La riconquista di livelli di prezzo remunerativi anche per la concorrenza di sicuro non fa l’interesse dell’Arabia Saudita, la cui strategia si fonda da un lato sul tenere fuori dal mercato i produttori ad alto costo e dall’altro sull’impedire che il caro-petrolio scoraggi i consumi, dirottandoli su altre fonti di energia. Già adesso fare il rincaro dei carburanti è pesante in alcuni Paesi asiatici – fondamentali per la crescita della domanda – che di recente hanno ridotto o abolito i sussidi: a New Delhi, in India, il diesel è rincarato del 7% quest’anno secondo Bmi Research, in Thailandia l’aumento è stato del 17%.
Per Riad sarà un equilibrio non facile da mantenere. Ma il nuovo ministro dell’Energia Khalid al-Falih la settimana prossima a Vienna potrà finalmente rivendicare il successo – sia pure tardivo e forse, chissà, temporaneo – della strategia “liberista” imposta all’Opec: lasciare al mercato il compito di riallineare domanda e offerta. Sia pure con il contributo di diverse emergenze produttive, oggi c’è addirittura un deficit di petrolio, che aiuta a ridurre le scorte e permette ai prezzi di risalire.
È?ben difficile che l’Opec – divisa e litigiosa come raramente nella storia – a questo punto possa deliberare un intervento sul mercato. L’unica decisione che potrebbe scaturire dal vertice, secondo indiscrezioni riferite dal Wall Street Journal, è il rinnovo del segretario generale. A tre anni dalla scadenza dell’incarico al libico Abdalla El Badri, è arrivato un candidato che avrebbe trovato l’appoggio sia dei sauditi che degli iraniani: si tratta del nigeriano Mohammed Barkindo.