Avvenire, 26 maggio 2016
Le rare interviste concesse in vita da Céline raccolte in un libro
La ricerca dello stile senza esercizi, forzati. È questa la cifra portante dell’intera opera del più visionario e ineffabile degli scrittori del ’900, Louis-Ferdinand Céline. Cifra che si ritrova a pieno ne Il demone dello stile (Medusa, pagine 78, euro 10,00) la raccolta delle rare interviste concesse in vita dal dottor Destouches poi assurto, nella storia della letteratura e del pensiero umano, a Céline, il cognome della madre.
Schivo, refrattario agli incontri, il 4 luglio del 1958 a Meudon l’allora sessantaquattrenne Céline accetta di registrare un’intervista radiofonica per la trasmissione Voyons un peu. La conversazione venne condotta da André Parinaud il quale lo incalzò: «Perché ha pubblicato questa nuova opera, D’un château l’autre?» (tradotto in italiano Da un castello all’altro, primo tassello della Trilogia del Nord che comprendeva gli altri due romanzi: Nord e il definitivo Rigodon). La risposta di Céline fu altrettanto perentoria: spiegò di aver scritto D’un château l’autre prima di tutto «per ragioni economiche, a voler essere eleganti». E poi per far luce su una «piccolissima parte della storia di Francia» in cui intese parlare di «Pétain, parlo di Laval, parlo di Sigmaringen, è un momento della storia della Francia, che ci piaccia o no, possiamo dispiacercene, ma è un momento della storia di Francia. Tutto questo è esistito, e un giorno se ne parlerà nelle scuole». Un affondo ideologico, pericoloso, che probabilmente venne in parte censurato visto che la trasmissione non fu trasmessa integralmente. Nell’intervista di Parinaud, Céline pare allontanarsi immediatamente dalla palude delle allusioni antisemite e da ogni trappola di strumentalizzazione che lo avevano già indelebilmente segnato.
Pregiudiziali smentite da un incontro avvenuto proprio in quell’anno, il ’58, tra lo scrittore francese e il poeta americano Allen Ginsberg che era di origini ebraiche, accompagnato dall’altro “beat” William S. Burroughs. Entrambi ammiratori devoti dello stile céliniano. «Sono uno stilista, ho questa debolezza e credo che sia una debolezza poco diffusa», racconta nell’intervista. Il mestiere di scrivere e in fondo anche di vivere, in Céline trova espressione compiuta in quel «dare forma, dare stile, non codificare», sottolineato in prefazione da Simone Paliaga.
Una scommessa che sempre secondo Paliaga emerge in toto in Guignol’s Band il romanzo degli eccessi e delle peregrinazioni giovanili nel caos londinese durante la Prima guerra mondiale. Lo stile in queste pagine tesse un filo sottile che permea la poetica futura, ponendosi al servizio degli uomini, soccorrendoli con «quella leggerezza che è stata sottratta loro dai tempi moderni». Per Céline l’urgenza (allarme) sta nel salvare l’uomo dal fardello estremamente pesante dell’«auto, dell’alcol, l’ambizione, la politica». Tutto questo ammasso di pesantezze sono il «porc», le «scorie metallurgiche» della modernità che non sono state ancora smaltite, ma anzi sono diventate montagne di discariche globali. Mali sociali che Céline individuò profeticamente. Nel suo infinito viaggio al termine della notte buia dell’umanità, per recuperare e dare senso al linguaggio deve tornare alle origini socratiche. «Socrate diceva che il linguaggio scritto è sempre cattivo che il solo linguaggio parlato ha valore, e c’era del vero in questo. Io sono più radicale di Socrate, cerco di far passare il linguaggio parlato nello scritto. Ci sono arrivato, in una certa misura, e credo abbastanza bene, sì abbastanza bene». Autoconvincimento, ma anche fiducia e passione nel suo lavoro linguistico, pari alla fede cieca e assoluta nello stile. Unica icona di riferimento di Céline che ricorda: «Io sono mistico, ma il buon Dio non ha l’aria di interessarsi alle cose che mi interessano». Ciò che lo interessava era «l’oggetto» delle storie e la possibilità di metterle in pagina traducendole solo mediante quel linguaggio parlato. «Ma questo – ricordava a Perinaud – si fa solo a prezzo di uno sforzo terribile, perché il foglio di carta non lo vuole». La scrittura è stata fino alla fine dei suoi giorni (morì nel 1961) il nutrimento stilistico, ma soprattutto il cibo di quel bambino del passage Choiseul cresciuto con il pasto nudo e quotidiano servito nel pentolone, a base di «tagliatelle e zuppa di pane». Al prezzo del sacrificio, in cambio chiedeva il giusto compenso per la sua letteratura e quindi anche per le interviste. A Luis Pouwles nella primavera del 1959 concesse la prima conversazione televisiva, trasmessa solo dieci anni dopo dal secondo canale francese. Uno strappo alla silenzio della morte a credito, fatto esclusivamente per compiacere l’editore, Gallimard, «altrimenti non mi darebbe gli anticipi», e per riempire la sua pancia e quella del pappagallo Toto, ma anche per rimarcare: «Ciò che si fa gratis è perso e anche più che perso, otterrete degli scrittori gratuiti. Attualmente avete solo scrittori gratuiti, e ciò che è gratuito puzza di gratuito». Esporsi in via del tutto eccezionale ai media nascenti e di lì a poco imperanti, in fondo per essere risarcito «perché mi considero vittima delle cattiverie, e non è giusto, e lo dico, e morirò dicendo che sono stato trattato ingiustamente, sono stato spogliato, svaligiato, saccheggiato, brutalizzato, insultato da tutte le parti, da persone che non ne valevano la pena». È il j’accuse di un uomo pervaso dal demone dello stile che ancora si aggira per l’Europa, e non solo, e che forse avrà trovato pace in quell’attimo di immenso che è la fine: «Sarò contento quando sarò morto, ma desidero morire nel modo meno doloroso possibile, è tutto, non sono assetato di dolore».