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 2016  maggio 26 Giovedì calendario

I minatori della Val Cornera che tengono vivo il ricordo della loro cava

DARZO (TRENTO)
All’improvviso Lele spegne la torcia. «Guarda, questo è il vero buio». Mai visto un nero più nero. Fa un po’ paura, c’è puzza di freddo umido. L’unica presenza viva è una goccia che cade dalla volta in pietra della miniera e scivola nel collo. La torcia si riaccende: sulla parete di porfido striata di bianco, il bianco latte della preziosa barite, piccole strane cavallette e moltissimi ragni. Qui hanno vissuto, scavato, minato, rischiato la pelle migliaia di cristiani per cent’anni, e non è soltanto un vuoto di gallerie quello che hanno lasciato.
Sito minerario di Marigole, Val Cornera, appena sopra Darzo e Storo. Remote geografie. Dove finisce il Trentino e comincia la Lombardia, finisce una storia di minatori e ne comincia un’altra. Qui nel 2009 hanno chiuso l’ultimo scavo di solfato di bario, volgarmente detto barite: serve per addensare le vernici, per isolare le sale operatorie e i reparti di radiologia ma anche per colle, stucchi, adesivi. Il bario era la disgustosa pappetta che bisognava ingoiare prima della lastra allo stomaco, e in guerra lo usavano come zavorra per i sottomarini, perché pesa tantissimo: 46 quintali al metro cubo. Per estrarre barite, l’oro bianco di queste valli, gli uomini hanno bucato la montagna dal 1894 (fino a 15mila tonnellate nel ‘46, l’anno più ricco), ma un bel giorno le pepite sono finite. Così altri tipi di minatori si sono messi a scavare nella storia e nella memoria e hanno estratto ricordi, oggetti, progetti e un possibile futuro.
Lele, quello che ha spento la torcia, sarebbe Emanuele Armani. Ha 41 anni ed è presidente dell’associazione “La Miniera” di Darzo, 750 abitanti e 160 tessere. Ci fa strada tra i binari arrugginiti che sbucano nell’erba. «Volevamo che il paese capisse la sua storia ormai un po’ congelata e la traducesse in qualcos’altro. Per prima cosa abbiamo dipinto i murales sulle case, tutti a tema miniera, poi ci siamo messi a progettare un museo, passeggiate nei boschi fino ai cunicoli, lezioni nelle scuole, interviste agli ex lavoratori e alle loro donne, che poi sarebbero le nostre madri e le nostre nonne». Molto del lavoro ha preso sostanza in un sito Internet bellissimo: www. minieredarzo. it. Lì dentro ci sono anche una settantina di testimonianze della gente di miniera, a microfono aperto e voce viva: forse era dai tempi di Nuto Revelli e dei suoi vinti di Langa che non si vedeva una cosa simile. «Ma niente nostalgia: vogliamo che la miniera diventi anche un’occasione di lavoro». Giuliano Beltrami, giornalista dell’Adige, ex insegnante di lettere e direttore della cooperativa sociale “Lavori in corso”, cieco dalla nascita ma questo c’entra niente, ha scritto un libro sull’epopea mineraria, però le pagine migliori sono ancora bianche. «Vogliamo realizzare un museo, o almeno un’esposizione permanente. Il materiale c’è tutto: attrezzi, macchinari, testimonianze. Servono soldi: li troveremo. Io sono cresciuto a pane e barite, la mia mamma la sera mi portava da papà che faceva il guardiano. Le nostre miniere bloccarono l’emigrazione, così di silicosi si moriva a casa e non più in America, almeno questo».
Per decenni gli uomini topo hanno scavato a mani nude e senza mascherine, respirando la polvere bianca e soffocando lentamente. «Lavoravano a coppie», racconta Lele. «Il primo minatore portava il “fer da mina”, cioè l’attrezzo per forare la pietra e minarla: 9 candelotti per ogni volata, cioè per ogni esplosione. Il secondo impugnava la mazzetta». Entriamo nella costruzione dove la sera gli uomini topo andavano a dormire. In mensa, tra le panche, c’è ancora odore di mangiare. Tute blu ed elmetti negli armadi di ferro, lampade a carburo, mazze e picconi, una Singer per cucire i sacchi di iuta della barite. «Tutta questa gente ha lavorato per noi», dice Giuliano. Contro il muro ci sono arnesi ortopedici e una rudimentale barella di tela. «I minatori si rompevano le ossa, si slogavano caviglie e ginocchia. I più malandati li portavano a valle di peso su questa barella, stordendoli di grappa mentre loro urlavano». Il bosco è aspro, selvaggio, di una bellezza che spaventa. «Per salire quassù servono un paio d’ore di cammino, ma organizziamo anche gite in navetta». Marisa Marini è la vicepresidente dell’associazione. «Laggiù c’è il lago d’Idro, non è una meraviglia? Da luglio partiranno due visite guidate il martedì, venerdì, sabato e domenica. Per prenotare basta collegarsi al nostro sito». E a questi minatori della memoria, volendo, si può anche destinare l’otto per mille (codice fiscale 02211240227).
«Metti l’elmetto che entriamo», dice Lele indicando l’ingresso della galleria Santa Barbara, protettrice degli artificieri. La luce rischiara qualche piccola vena di barite dentro la roccia. «Questo è lo svincolo che va in basso». È un labirinto di cunicoli ordinati come un condominio di sette piani piantato nella montagna, dove però si scende invece di salire: 62 metri di strapiombo, e da ogni pianerottolo partono altre gallerie. Il deposito dei candelotti si chiamava la riservetta, «temperatura costante, sempre un soffio di corrente d’aria che a molti bucava i polmoni». Tira vento, infatti, nel vero buio. «La rivoluzione venne con i compressori e le benne ad aria, ma sempre vita infame rimaneva». Dopo avere acceso la miccia, i minatori si riparavano dietro la roccia e pregavano la loro santa pirotecnica.
«Io ne ho tirati fuori un paio, dopo le esplosioni andate male, ma di più ne ho visti morire di silicosi e cancro». Il signor Vigilio Marini ha 86 anni ed è, obiettivamente, il ritratto della salute. A mezzogiorno ci aspetta per il caffè insieme alla moglie Marta Beltrami, una ragazzina di tre anni più giovane, davanti alla loro casetta che poi sarebbe una baracca di legno. «Quando l’abbiamo presa era foderata di cartone», racconta Vigilio. «Ci vivevamo d’estate e adesso ci veniamo ancora, e ci sono venuti i figli e i nipoti». Due ambienti minuscoli, cucina e camera da letto, però con i pannelli solari vicino al comignolo che sbuffa. «Sono stato là dentro per 22 anni. Il pericolo era la falsa miccia: qualche volta esplodeva perché era corta e non c’era niente da fare. Poi venne l’innesco elettrico e la paura passò». La moglie Marta faceva la cernitrice: «Noi donne dividevamo le pietre di barite, che scorrevano sul nastro bagnato, secondo la qualità. Era tanto freddo, ho preso l’osteoporosi e il cedimento vertebrale. Ci scaldavamo col fuoco nel secchio come i muratori, ma il guardiano Bepi ci sgridava quando lo accendevamo, diceva che perdevamo tempo. E se andavi in sposa o eri incinta, ti lasciavano a casa. Aspettavo Vigilio tutta la settimana, o per quindici giorni se era di guardia alla polveriera: i mariti e i morosi stavano via dal lunedì al sabato quando andava bene». Sul murale più grande e colorato, giù a Darzo, si vede proprio questo: gli uomini seduti sotto il castagno, da soli, che fanno vagare i pensieri. E ogni pensiero ha forma di donna.
(18 – continua)