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 2016  maggio 26 Giovedì calendario

Il Favola e la Farfalla. Storia del caso Yara, per quanto ne sappiamo finora

Il «Favola» e la «Farfalla»: che nomi delicati per una storia così densa di oscurità.
Una bambina di terza media era stata inghiottita dal buio pesto e la neve l’aveva sepolta. Al disgelo, tre mesi dopo, era ricomparsa tra il fango e i rovi di un campo desolato. Nessuno sapeva chi l’avesse portata via.
Anche l’uomo che aveva tarpato le ali alla «Farfalla», come il pubblico ministero, nella sua requisitoria, ha chiamato Yara Gambirasio, perché farfalle sono le piccole ginnaste, era rimasto avvolto nello stesso buio. E solo se si ha voglia di frugare in quell’oscurità dolorosa in cui Yara era stata lasciata morire, preda del terrore che le aveva ingombrato i polmoni sino all’edema, si comprende come sia emerso dal nulla proprio il «Favola».
È l’imputato unico, accusato di omicidio aggravato dalla crudeltà. Si chiama Massimo Giuseppe Bossetti, lavora come carpentiere, 45 anni. Sposo non felice, padre di tre figli, bugiardo quotidiano certificato. Sulla sua sorte giudiziaria deciderà entro giugno la Corte d’assise di Bergamo, cinque anni e mezzo dopo la morte della «Farfalla», avvenuta esattamente il 26 novembre 2010 nella miseria fangosa di Chignolo d’Isola. È sufficiente una buccia di pisello a smentire le ipotesi su Yara segregata per giorni in un altrove, spogliata e poi rivestita da un gruppo di maniaci.
La buccia di pisello era nel suo stomaco. Era parte del pranzo preparato dalla mamma e servito alle 14. Non avrebbe resistito ad altre ventiquattr’ore, i succhi gastrici avrebbero distrutto il piccolo reperto. Questa è scienza. Mentre resta sola nella notte, perché l’assassino ha colpito e le ha voltato le spalle, Yara sa che nessuno può venire a salvarla: è stata trovata «piena» di acetone. Viene prodotto dalla paura. Anche questa è scienza.
Sotto il corpo c’è una foglia fresca, fa parte della flora del campo. Unica verde tra le altre intorno, tutte secche: è Yara che l’ha protetta, morendo. Con le erbe attorcigliate alle mani. Sono le larve, i coleotteri, il terriccio conficcato nell’occhio, la botanica e l’entomologia a sostenere che era arrivata viva – mancano infatti le tipiche lacerazioni da trascinamento – là dove ha smesso di volare. Un’altra scienza, la merceologia, evidenzia sulla scena del crimine fibre di tessuto sintetico e particelle metalliche: di quelle che si trovano sui cantieri edili. È dall’aggregazione di dati scientifici eterogenei che sbuca Ignoto Uno.
Maschio caucasico. Forse un operaio edile. Fine. Aloni con Dna maschile sono stati però trovati nel laboratorio del Ris dei carabinieri sia sugli slip (l’11 marzo 2011) sia sui leggins (il 7 luglio) della vittima. Adesso non si può sbagliare una mossa. È quello che si dicono l’un l’altro, dalla Procura di Bergamo al consulente esterno.
Per estrarre il Dna si utilizzano otto kit diversi: sei sono in commercio, uno serve per il cromosoma x e uno per il cromosoma y. I diversi reperti, analizzati in tempi diversi, danno tutti l’identico risultato. Il Dna – capiamoci – è come un romanzo ricco di tante pagine, ognuno «è» il suo libro, due uguali non esistono. Il libro dell’assassino c’è: mancano titolo e autore.
Come trovarli? È come se un gigantesco e costosissimo setaccio cromosomico, mai usato prima al mondo, si fosse messo in moto per frugare dovunque, in un’indagine massiva che ha come epicentro Brembate di Sopra. Sette mesi servono per la prima pista: tra 500 giovani che ballano in una discoteca non lontana dal campo dov’era stata uccisa la piccola, uno ha un Dna con alcuni paragrafi del suo libro uguali al libro di Ignoto Uno. Appartengono a una sola famiglia.
Seguendo Damiano Guerinoni, nell’ottobre 2011, si arriva a Gorno, in alta Valseriana. Per censire tutti i Guerinoni si risale al 1719 e ai registri parrocchiali. Nessuno è positivo ai test, finché non viene riesumato il corpo di Giuseppe, autista di bus: uno che, per usare il limpido linguaggio paesano, «Se poteva, le timbrava tutte».
Tra le «timbrate», c’è Ester Arzuffi. Il libro del suo Dna non mente: è la madre di Ignoto Uno, così come l’autista ne è il padre. Ester era fresca sposa e operaia, stava a Gorno, accettava i passaggi del vicino rubacuori, era rimasta incinta di due gemelli ed era emigrata in un altro posto del Bergamasco. Dove farà un altro figlio: nemmeno questo del marito anagrafico.
È l’analisi del Dna nucleare, unico ammesso come prova dalla giustizia mondiale, a far arrestare «il Favola», il 16 giugno 2014. Il Dna mitocondriale in un’aula di giustizia non ha il minimo valore: «Ci vorrebbero 300 milioni di miliardi di mondi come il nostro per avere un altro Massimo Bossetti», può dire il pm Letizia Ruggeri.
Messo sotto chiave Bossetti, carabinieri del Ros e squadra mobile si dedicano all’indagine «all’incontrario». Hanno una domanda alla quale rispondere: il 26 novembre 2010, data della morte di Yara – bisogna ricordare la buccia di pisello e dimenticare le fanfaluche – Bossetti era o no sulla scena del crimine? Lui, che abita in zona, non riesce a ricordarlo. Ma è da tempo che l’occhio elettronico non perdona più gli smemorati: in coincidenza con la scomparsa di Yara, tre telecamere private inquadrano l’inconfondibile furgone del carpentiere, un Iveco Daily passo 3450 modificato. I sedili del camion sono di tessuto sintetico di quattro diversi colori: due blu, un turchese, un giallo. Sugli indumenti di Yara sono state trovate – «indistinguibili» per diametro, composizione chimica e cromaticità – fibre blu, turchesi e gialle. Per questi e altri dati, restano nel buio il dove, il come e il perché Bossetti abbia preso la piccola Yara. Sul chi e sul quando l’accusa non ha più dubbi. E nemmeno la famiglia di Yara. «Lei – dice l’avvocato di parte civile in aula a Bossetti, e non certo per ferirlo – pare una persona tormentata, e non dal processo… Liberi la coscienza. Ai Gambirasio non serve il risarcimento. Più prezioso dei soldi sarebbe raccontare gli ultimi minuti della povera bambina». Sia consentito non a un medico, ma a un cronista, scrivere che, osservando l’imputato in aula – mentre ruota la testa, dorme, mastica una gomma o resta impassibile alla parola «ergastolo», quando sorride o s’inalbera a seconda di dettagli che vengono presi in esame – viene da chiedersi: dov’è? Capisce? Segue un filo logico tutto suo? Indossa una maschera? Nessuno però ha chiesto per l’imputato quello che in quasi tutti i processi simili avviene: una perizia psichiatrica. Per uno che, da adolescente, aspettava fuori casa di pomeriggio che la madre mandasse via gli «amici» andati a trovarla. Per uno che sui cantieri piangeva narrando di avere un tumore, di dormire fuori casa, di aver pestato la moglie, di essere così disperato da «buttarsi dal ponte di Sedrino». Per uno che, anche adesso, nel carcere di Bergamo, nonostante un simile processo in corso e la (parole sue) «famiglia meravigliosa», ha fatto arrivare una serie di lettere erotiche a una detenuta. Chi è quest’uomo che sul computer, a Yara già sepolta, cercava «ragazze vergini rosse» e «ragazzine con vagina rasata»? Nessuno vuole guardare nel buio della sua mente. Nemmeno la difesa che domani, dopo aver ascoltato la richiesta di ergastolo e un risarcimento danni di 3 milioni e 600mila euro, prenderà la parola, dentro un’aula dove telefoni e videocamere non sono permessi.