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 2016  maggio 25 Mercoledì calendario

Italiani? Un popolo di analfabeti

Un’Italia di analfabeti? L’allarme lo lancia Andrea Camilleri, autore del poliziotto-record della tv italiana, il commissario Montalbano. Ma se il suo personaggio spopola sugli schermi e vince sui concorrenti anche in replica, lui mette in guardia contro il potere della tv, in gran parte determinato dalla scarsa alfabetizzazione degli italiani oltre che da una scuola che non funziona. È per questo che i politici non mollano l’osso della Rai, che i leader saltellano da un talk all’altro e i programmi meno ossequiosi vengano chiusi, che Silvio Berlusconi si tiene stretta la gestione di Mediaset.

Insomma, è proprio il Montalbano re della tv che se la prende per l’influenza della tv sul pubblico e l’uso che del mezzo televisivo ne fa il potere.
Dice Camilleri: «Secondo un rapporto coordinato dal linguista Tullio De Mauro, in Italia vi sono due milioni di analfabeti totali, 13 milioni di semianalfabeti, ovvero che sanno fare solo la loro firma e poco più ma non capiscono ciò che leggono, altri 13 milioni di analfabeti di riporto, ovvero che hanno perso un uso fluido della scrittura e della lettura. In totale, 28 milioni di italiani, su 52 milioni, sono sotto la soglia della sufficienza dell’alfabetizzazione. Nel momento in cui essi si recano a votare sulla base di che cosa esprimono il loro voto, su che cosa hanno basato le loro condivisioni? Sulla televisione. E basta. Ecco perché da parte del potere è assolutamente indispensabile che l’informazione sia univoca, indirizzata in un unico senso. Dopodiché la sparuta informazione libera dei giornali può essere limitata nella diffusione sul territorio oppure emarginata in modo che domini l’informazione condizionata».
Ha ragione Camilleri? Forse sì se dal 2000 ad oggi le copie di quotidiani vendute sono diminuite del 32%: da circa 6 milioni si è passati a poco più di quattro milioni (4.067.843, calcolando i 57 quotidiani censiti da Ads). Se si sottraggono le copie vendute dai tre quotidiani sportivi, rimangono appena tre milioni 461 mila copie. Andrea Camilleri (com’è sua abitudine) lancia il sasso nello stagno. Anche perché i numeri elaborati da De Mauro, non solo docente emerito a Napoli ma anche ministro all’Istruzione per un anno (2000) nel governo Amato, sono scoccanti: la percentuale degli italiani che ha una comprensione dei discorsi politici è inferiore al 30% e il 33% non è in grado di comprendere appieno un articolo di giornale. Per non parlare dell’Europa, nei fatti sconosciuta ad oltre il 57% delle persone.
«Per quest’ultimo dato forse ha un po’ colpa anche l’Europa- dice Camilleri. – Nei primi manifesti europeisti non si parlava di denaro, banche e mercati, si parlava di altro. Ci sono due maniere di vedere il denaro e l’esistenza della comunità europea, e si crea una linea che va dal Portogallo, passa per la Spagna, va verso l’Italia e la Grecia. È la forma che abbiamo noi latini di concepire il denaro, la vita, l’aria che respiriamo. Poi c’è un’altra maniera, un po’ calvinista, un po’ protestante, di percepire la relazione con il denaro, quella dei Paesi del Nord. Bisogna fare in modo che non prevalga né l’una né l’altra». La politica e l’Europa sono le grandi incomprese da una popolazione in parte in crisi di alfabetizzazione. Con la situazione destinata a peggiorare per colpa dell’ l’invecchiamento della popolazione. De Mauro spiega così la teoria del «meno 5»: «Data la natura selettiva della nostra memoria, si constata che in età adulta tendiamo a regredire di cinque anni rispetto ai livelli massimi raggiunti durante gli studi a meno che, ed è fondamentale, non continuiamo a esercitare quella competenza. Per esempio, nell’ ultimo anno di liceo ci siamo inoltrati in argomenti non elementari di matematica ma, se non diventiamo bancari, geometri o ingegneri, la nostra matematica adulta si rattrappisce e, se va bene, torna ai livelli della terza media. Così avviene per ogni altro campo. Se non leggiamo libri o romanzi, di tutta la storia studiata restano brandelli sospesi nel vuoto».
Un’altra ricerca, firmata Ocse, dà ragione a De Mauro. Secondo l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico in Italia il 47% della popolazione, quasi un italiano su due, si informa vota e lavora seguendo soltanto una capacità di analisi elementare. Questo fuggire dalla complessità è denominato analfabetismo funzionale e la World Literacy Foundation ha calcolato che esso costa all’economia mondiale 1,2 trilioni di dollari e a quella italiana 50 miliardi di dollari. Occorre quindi «aggredire», anche per problemi di assetto economico, il problema dell’analfabetizzazione. Secondo De Mauro, una possibilità viene dall’educazione permanente degli adulti: «Gli investimenti nell’istruzione sono investimenti a lungo termine, mentre gli investimenti in educazione degli adulti sono un investimento immediato. Anche brevi periodi di formazione sono sufficienti a riattivare il livello di scolarità».
Nel 1861, il tasso di analfabetismo in Italia era del 78%, circa otto italiani su dieci sapevano a malapena scrivere il proprio nome. Secondo il censimento generale del 1951, seppur con grandi differenze regionali, l’Italia era riuscita a ridimensionare il fenomeno, portandolo al di sotto del 13%. Poi, nel 2001 la popolazione totale degli analfabeti puri italiani rappresentava l’1,5% del totale. Passi avanti se ne sono fatti ma negli ultimi decenni il fenomeno è scomparso dall’agenda politica e accanto ai 2 milioni di analfabeti che pur rimangono e che un Paese sviluppato come l’Italia non dovrebbe tollerare, vi è la schiera dei quasi analfabeti.
Si fa presto a parlare di buona scuola e di investimenti in cultura. Ma tra il dire e il fare Inoltre bisogna fare attenzione quando si riforma un settore tanto delicato come quello della scuola: «È sbagliato – dice Camilleri. dare tutto questo potere ai presidi perché ce ne sono di bravi e meno bravi. Del resto si è scoperto che anche tra i premi Nobel ci sono degli imbecilli. Poi c’è la faccenda della storia dell’arte che era stata dimezzata. Ma vi pare possibile in un Paese come l’Italia?».
Save the Children sostiene che in Italia il 48% dei minori tra 6 e 17 anni non ha letto neanche un libro, se non quelli scolastici, nell’anno precedente, il 69% non ha visitato un sito archeologico, il 55% non ha mai messo piede in un museo. «Un bambino su tre – commentano i ricercatori- non solo non ha stimoli culturali ma non leggendo e non conoscendo le meraviglie del passato perde la possibilità di avere degli stimoli a crescere, a conoscere e, in definitiva ad affermarsi».
Ma c’è addirittura di peggio: il 12% della popolazione (5,9 milioni di persone), non hanno alcun titolo di studio. È una piramide appuntita. Al vertice, vi è il 7,5% di laureati, circa quattro milioni, alla base il 36,5%, di italiani senza alcun titolo di studio o in possesso della sola licenza elementare: circa 20 milioni.
Poi c’è il problema della qualità dell’istruzione. Non sempre a un titolo di studio corrisponde un’adeguata conoscenza. Dice Camilleri: «La scuola è in condizioni disastrose. Se avessimo al potere gente veramente illuminata capirebbero l’importanza della creatività, ma vedo gente al potere coi paraocchi, che guarda a un orticello molto piccolo del sapere e non a tutte le implicazioni che l’insegnamento comporta». La regione all’ultimo posto è la Basilicata con il 13,8% di persone senza titolo di studio o con la sola licenza elementare, seguita da Calabria (13,2%), Molise (12,2%), Sicilia (11,3%), Puglia (10,8%), Abruzzo (9,8%), Sardegna (9,1%) e Umbria (8,4%). Ma, a sorpresa, la Calabria ha più laureati della Lombardia, del Piemonte, dell’Emilia Romagna e del Veneto.
Quindi dalla Sicilia di Montalbano arriva l’SoS per spingere l’acceleratore sull’istruzione. E Camilleri non nasconde la nostalgia per la vecchia figura dell’insegnante: “Quelli che insegnavano senza avere l’aria di insegnare. Come il mio professore di italiano al liceo, Emanuele Cassesa. Era un quarantenne giocatore d’azzardo, passava le notti insonni in bische clandestine col rischio di arresto perché il gioco d’azzardo era proibito, per cui certe mattine entrava in classe e diceva «per carità, dieci minuti di sonno, chiudete le finestre, fate quel mezzo casino che fate di solito quando ci sono io sennò il bidello si insospettisce e fa la spia». Dopo un quarto d’ora si svegliava e iniziava a leggere e interpretare Dante, appassionandoci in un modo semplicissimo come se fosse raccontata da un contadino e quello che ancora conosco di Dante lo devo a lui.