Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2016
All’Ilva, per smettere di bruciare soldi, servono soldi
Adesso, con l’Ilva, serve molta razionalità. Una razionalità non puramente economicistica. Una razionalità anche di stampo strategico. La siderurgia italiana ha preso la strada del consolidamento. La tempesta perfetta formata da un lato dall’eccesso mondiale di offerta di acciaio e dall’altro dall’affaire giudiziario-politico-finanziario di Taranto sembra avere esaurito i suoi spaventosi effetti distruttivi. I numeri macro non mentono. Proprio per questa ragione occorre lavorare sui numeri micro. Il primo numero micro è quello dei crediti dovuti alle imprese dell’indotto, che a Taranto sono valutati in 150 milioni di euro. E bene ha fatto Confindustria Taranto, guidata da Vincenzo Cesareo, a fondare una società consortile finalizzata a convertire una parte di essi in equity. Meglio partecipare a un rischio di impresa che piangere sui crediti in fumo. L’altro numero, invece, è ancora una carta coperta. Si tratta della cifra che sarà contenuta in ciascuna delle buste con le offerte per la società. Su questo tema c’è un problema che non può essere nascosto. Sotto il profilo della finanza di impresa, della riattivazione industriale e della ricomposizione emotiva – di una comunità insieme economica e sociale, sindacale e delle istituzioni finanziarie – la somma che sarà offerta non sarà indifferente per la – auspicata e indispensabile – guarigione di una delle ferite più profonde degli ultimi cinquant’anni di vita italiana. I componenti della equazione che avrà come risultato il prezzo offerto dalle diverse cordate hanno caratteristiche uniche, date dall’eccezionalità del caso. Questi componenti sono: le condizioni di drammatica erosione della base patrimoniale, il ritmo costante ma inesorabile delle risorse bruciate, gli investimenti necessari per ripristinare il livello della manutenzione, l’assorbimento del rischio di impresa e il contemperamento della incognita giudiziaria. Più, naturalmente, le spese per i lavori ambientali, da cui tutto – quasi quattro anni fa – ha avuto origine. Leonardo & Co. ha ricevuto l’incarico di stabilire il valore dell’Ilva. Le analisi vanno benissimo. Anche se, alla fine, come diceva Enrico Cuccia – e come cantavano i protagonisti della mala milanese di Giorgio Gaber e Enzo Jannacci – vale sempre la regola dell’“Articolo Quinto: chi ha in mano il grano a vinto”. Il problema è che la connotazione ultra-negativa di molti elementi del caso potrebbe spingere gli imprenditori interessati a mettere sul tavolo una cifra ridotta al lumicino. O, magari, a presentare un progetto industriale in cui si dà la disponibilità a rilevare il tutto e a farsi carico delle ingenti passività finanziarie, senza però offrire alcunché. Ognuno è libero di disporre dei suoi soldi come meglio ritiene. Ci mancherebbe altro. Se, però, passasse l’idea che l’equazione giusta da considerare è quella del potenziale dell’Ilva – che nei tempi migliori arrivò a un margine lordo di un miliardo di euro – la cifra sarebbe tutt’altro che irrilevante. All’Ilva, per smettere di bruciare soldi, servono soldi. L’auspicio è che questo sia chiaro a chi volesse venire a Taranto non soltanto per una mera speculazione o con l’idea di uno smembramento (magari profittevole, ma tutt’altro che indolore) degli stabilimenti, delle attività e delle funzioni aziendali.