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 2016  maggio 25 Mercoledì calendario

L’ibernazione per guarire da un ictus o per volare su Marte

Quando si parla di ibernazione, si respira subito aria di fantascienza. Mentre non c’è un solo caso documentato di «resurrezione» dopo essere stati congelati, la scienza sta procedendo spedita verso una più realistica applicazione dell’ibernazione a scopo terapeutico. Recupero dopo infarti e ictus e lotta al cancro sono alcuni dei campi che potranno beneficiare di questa tecnica estrema. E non solo: se l’uomo volerà su Marte, non potrà probabilmente fare a meno di alcuni brevi periodi di «letargo».

Spiega Matteo Cerri, ricercatore in Neurofisiologia all’Università di Bologna e tra i massimi esperti italiani del settore, che «l’ibernazione è un processo completamente diverso dalla crioconservazione. Spesso i due termini vengono erroneamente sovrapposti. Mentre quest’ultimo processo prevede il blocco di qualsiasi funzione fisiologica dell’organismo, l’ibernazione non è altro che un drastico abbassamento del metabolismo corporeo con la conseguente riduzione della temperatura. In altre parole, il consumo energetico si riduce quasi a zero e le funzioni vitali sono rallentate al minimo». In natura sono molti gli animali che ricorrono a questa strategia per sopravvivere a condizioni ambientali avverse. Un processo ancora misterioso, se si considera che al momento del risveglio l’animale riprende le sue funzioni come se nulla fosse accaduto.
Partendo da questa osservazione, sempre più team si sono messi all’opera nel tentativo di studiare, anche per gli animali – uomo compreso – che non cadono nell’ibernazione, come indurre questa sorta di «limbo» temporaneo. Per raggiungere l’obbiettivo Cerri e i suoi collaboratori si sono concentrati su un’area del cervello – il Raphe pallidus – responsabile del controllo della temperatura corporea. «Questa zona dell’encefalo rappresenta un interruttore capace di indurre lo stato di ipotermia. È qui che passano le informazioni utili a mantenere costante la temperatura corporea. Utilizzando una microcannula, siamo riusciti a ibernare con successo un topo semplicemente iniettando una sostanza in grado di bloccare l’attività del Raphe pallidus. Finito l’effetto, il topo è tornato alla normalità».
Ma perché tutto questo interesse nell’indurre un «letargo» nei mammiferi che di norma non ne hanno necessità? La risposta come sempre avviene dall’osservazione: il cervello è un organo che necessita di un’elevata quantità di zuccheri e ossigeno. Se per una qualsiasi ragione – per esempio un ictus – il «carburante» viene meno, i neuroni vanno in profonda sofferenza. Riuscire ad abbassare la richiesta di energia attraverso una riduzione della temperatura è una delle possibili strategie per superare e limitare i danni, in attesa che l’organo riprenda le sue funzioni standard. «Ad oggi l’ipotermia a scopo protettivo viene parzialmente ottenuta ponendo il corpo del paziente al freddo. Una procedura che consente di raggiungere temperature intorno ai 34 gradi, poiché, fisiologicamente, il cervello tenta di riportare il valore della temperatura ai classici 36,5 gradi. In realtà per arrivare ad uno stato di ibernazione terapeutica bisognerebbe arrivare a 20 gradi. Una condizione possibile solo attraverso l’azione diretta sul Raphe pallidus», spiega Cerri.
Ma le novità non finiscono qui perché l’ibernazione, in futuro, potrebbe essere la tecnologia risolutiva per permettere aun equipaggio umano l’esplorazione di Marte. Non è un caso che Cerri venga consultato dall’Esa, l’Agenzia spaziale europea: accesso limitato al cibo, possibili danni da radiazioni dello spazio profondo ed eventuali psicosi dovute alla lunghezza del viaggio sono soltanto alcuni dei problemi con cui gli astronauti dovranno confrontarsi. «Indurre brevi periodi di ibernazione potrebbe essere fondamentale per la buona riuscita della missione».
Quanto alla conservazione del corpo, crioconservato dopo la morte in attesa di guarirlo e poi di rianimarlo, «siamo – conclude Cerri – ancora alla fantascienza».