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 2016  maggio 24 Martedì calendario

La creatività italiana vale 47 miliardi di euro

Primi anni Ottanta: l’agente di Arnold Schwarzenegger, nonostante la scarsa esperienza e l’accento austriaco dell’aspirante attore, riesce a fargli avere un appuntamento con uno dei più importanti produttori di Hollywood per un film sceneggiato da Oliver Stone. Schwarzenegger, abituato evidentemente alle spacconate da palestra, entra nella stanza ed esordisce: «Come mai un uomo così piccolo ha una scrivania così grande?». Lui e il manager vengono sbattuti fuori. «Ma lo sai chi è quello e cosa bisogna fare per avere un appuntamento con lui?» si arrabbia il manager. Quell’uomo «così piccolo» con una scrivania effettivamente grande così come tramandato dalla leggenda era Dino De Laurentiis e la parte da protagonista, che dopo la sfuriata Schwarzenegger riuscì comunque ad avere, era in Conan il Barbaro (1982) da cui partì il suo successo. Tutti a Hollywood conoscevano De Laurentiis: uno dei grandi boss. L’aneddoto è dello stesso Arnold Schwarzenegger. E per la cronaca durante le riprese il «piccolo» si avvicinò al gigante bardato alla Conan, gli diede una pacca (non sulle spalle immaginiamo visto che non ci arrivava) e gli disse: «You are the Barbarian». Divennero grandi amici.
Quella era la Hollywood in cui gli italiani contavano, grazie anche alla magia felliniana ancora nell’aria. Gli anni della grande Cinecittà e di Marcello Mastroianni non erano tramontati da molto: La dolce vita di Federico Fellini è del 1960, 8½ del ‘63, Amarcord del ‘73. Sempre negli anni Sessanta Sergio Leone aveva scoperto e lanciato Clint Eastwood con i suoi Spaghetti-western e la «Trilogia del dollaro». Nel 1968 aveva girato C’era una volta il west con Henry Fonda e Charles Bronson. E ancora nel 1984 Leone girava con De Niro l’epico e un po’ sentimentale C’era una volta in America mentre due anni prima Carlo Rambaldi commuoveva il mondo con il suo «mostriciattolo» strappalacrime E.T. ed Ennio Morricone era l’unico in scia con il grande John Williams per le colonne sonore (Star Wars). Fatevi una passeggiata sulla Walk of Fame di Hollywood (oggi basta Internet): i nomi sono tutti di quegli anni (Sophia Loren, Mastroianni, Bernardo Bertolucci, Anna Magnani di qualche anno prima, lo stesso Morricone a cui è stata dedicata una stella solo pochi mesi fa). Negli Stati Uniti la creatività era considerata un monopolio italiano come oggi Google nei motori di ricerca: c’è stato bisogno di Quentin Tarantino per ricordarcelo e per riesumare anche Fernando Di Leo il cui lavoro è citato ampiamente in Pulp Fiction.
Si rimane schiacciati da un passato simile. Eppure se i fasti di quegli anni sono lontani anni luce e non torneranno (quando Mastroianni, che si era sempre rifiutato di recitare in inglese, disse sornione che sarebbe andato a Hollywood solo per un personaggio muto si vide recapitare un copione con un personaggio muto...) l’industria italiana della creatività sta riconquistando faticosamente la scena e forse non ce ne siamo accorti del tutto: Antonio Maresca e Andrea Bassanino di Ernst & Young ci hanno messo la testa e ne hanno tirato fuori i numeri, esercizio intellettuale non facile perché il «Pil della creatività» si nasconde tra mille rivoli di altre industrie: quella della Grande bellezza, cioè il cinema, ma anche tv, pubblicità, libri, musica, teatro, quotidiani, architettura, radio. Un po’ tutte le cosiddette professioni intellettuali. Senza considerare che in alcuni casi le sovrapposizioni non permettono sconfinamenti (motivo per cui la moda è rimasta quasi tutta fuori dall’analisi, pur essendo a tutti gli effetti un’arte creativa italiana: nei calcoli sono inclusi solo gli stilisti, come lavoro individuale, mentre rimane fuori tutto il valore aggiunto del prodotto moda). Il «totalone» che ne esce è di 46,8 miliardi di euro e 995 mila persone occupate tra attività dirette e indirette: il 2,9% del Pil complessivo e il 4,5% della forza lavoro.
Serve una guida istituzionale
Il punto debole della creatività come settore è che pur avendo un peso relativo importante non ha un ministero competente. Chi la difende? Tutti si sentono creativi nel governo ma nessuno lo è. I numeri, comunque, non riescono a raccontare tutto. Per esempio tra gli indizi di una ripresa c’è il rinnovato interesse per le produzioni italiane nel rielaborato genere delle serie tv in stile House of Cards, cioè con qualità cinematografica (che dovrebbero chiamarsi «serie iPad» visto che ormai è prassi comune guardarle una dopo l’altra sdraiati sul sofà con un tablet addosso).
Dopo la serie Romanzo criminale che, partita da Sky Italia, era stata distribuita in 70 Paesi, c’è stato il caso Gomorra, finita in 130 Paesi. Produzioni italiane, girate qui. Come ora sta capitando per la seconda serie di Gomorra. Sky ha fatto scuola tanto che Netflix per Suburra ha preso Stefano Sollima, lo stesso regista di Gomorra e Romanzo criminale, e la stessa casa di produzione cinematografica italiana, Cattleya, fondata da Riccardo Tozzi.
A riprova che il faro su di noi è stato acceso anche dagli Usa. Altro esempio: un’altra produzione come The Young Pope, scritta e diretta dal premio Oscar Paolo Sorrentino, con Jude Law nelle vesti del Papa, era nata sempre da Sky Italia e ha attirato da subito investitori internazionali. «Anche in Gran Bretagna – raccontano da Sky – ormai per la creatività è d’obbligo parlare con gli italiani».
Da ricordare inoltre il successo internazionale della serie Montalbano realizzata per la Rai da Palomar. Altro indizio, il ritorno di Cinecittà stessa: «Diabolik-La Serie di Sky Italia – si legge sul sito degli studios romani – si avvarrà del talento del 3 volte Premio Oscar Dante Ferretti, che ha accettato di realizzare le scenografie di Clerville, la città immaginaria in cui sono ambientate le gesta di Diabolik. La serie verrà prodotta interamente a Cinecittà. Per circa un anno, i principali teatri di posa del centro di produzione più prestigioso del cinema italiano, e i suoi set esterni, saranno il teatro delle riprese di Diabolik-La Serie. Si tratterà della più grande produzione tv girata negli ultimi 30 anni negli studi che hanno dato i natali al nostro cinema, oltre che di una commessa di valenza strategica per il grande centro di produzione, impegnato a contrastare un preoccupante calo di utilizzo degli studi, attraendo grandi produzioni internazionali cinematografiche e televisive».
Personaggi di casa nostra
Per chi non ne ricordasse l’origine, Diabolik è anch’egli un personaggio italiano creato nel 1962 da Angela e Luciana Giussani (l’idea di un fumetto tascabile per adulti venne in mente ad Angela guardando il continuo viavai di persone presso la stazione della metro Cadorna, vicino alla quale viveva). Creatività, appunto. Le avventure dell’uomo nero vennero pubblicate dalla casa editrice milanese Astorina. Italia, appunto.
Ma non è solo l’industria della Grande bellezza a muoversi. Nella musica potremmo rigirare il copione dei film: «Per gli artisti italiani è uno dei momenti più difficili all’estero fin dagli anni Sessanta» racconta Filippo Sugar, dirigente della Sugar Music e presidente della Siae. «Negli anni Ottanta e Novanta artisti come Gianna Nannini, Laura Pausini o Eros Ramazzotti vendevano bene in Sudamerica ma non solo. Non dimentichiamo poi Pavarotti».
Successo straordinario.
E oggi? La tecnologia in questo caso non aiuta: è noto come l’industria musicale sia cambiata con la sequenza Napster, Apple, Spotify e dintorni. Vita gramissima soprattutto per i creativi, cioè gli autori: si sa che Spotify distribuisce il 30% a case discografiche e band e cantanti. A chi scrive le canzoni va meno del 10%.
Ma certo l’assenza di successo internazionale è un’altra storia. Uno dei pochi è proprio un artista seguito da Sugar fin dagli esordi: Andrea Bocelli. Certo, oggi non ci sono più le autostrade di una volta: vuole la vulgata che prima di essere scoperto da Caterina Caselli (madre di Filippo Sugar) Bocelli stesse pensando di proseguire con l’altra carriera, quella di avvocato per un operatore telefonico. D’altra parte lo stesso Sorrentino per la Grande bellezza, poi premio Oscar come miglior film straniero, aveva dovuto cercare l’appoggio della Popolare di Vicenza e del Biscottificio Verona. Oggi pensare a questo fa sorridere.
Il viaggio nella creatività potrebbe continuare all’infinito perché, noi italiani, la mettiamo un po’ da tutte le parti: non è forse creatività quella di Carlo Cracco, di Davide Oldani, di Carlo Ratti del Mit di Boston e del supermercato del futuro Coop, quella di Stefano Boeri con il Bosco verticale o di Massimo Ciociola che da una ricerca su Google sulle lyrics si è inventato un’app da 50 milioni di utenti come Musixmatch?