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 2016  maggio 24 Martedì calendario

Pelè ha ancora un sogno da realizzare: «Mi piacerebbe giocare di nuovo nel Brasile, in una finale olimpica»

Se i record sono fatti per essere battuti, quello di segnare due gol in una finale di Coppa del Mondo a 17 anni apparterrà a Pelé ancora per molto tempo. Era il 29 giugno 1958. Il Brasile sconfisse i padroni di casa della Svezia per 5-2. Giovedì arriva al cinema il film che racconta come il giovanissimo Edson Arantes do Nascimiento riuscì in una delle più grandi imprese sportive del XX secolo: Pelé di Jeff e Mike Zimbalist (prodotto dallo stesso campione insieme a Brian Grazer, premio Oscar per A beautiful mind) è interpretato nel film dai due attori Leonardo Lima Carvalho e Kevin de Paula. «Ero troppo giovane per sentire veramente la pressione – dice Pelé – non avevo esperienza di competizioni così importanti. Mentre tutto il Brasile aspettava di vincere la sua prima Coppa del Mondo dopo la disfatta con l’Uruguay del 1950, io pensavo solo a entrare in squadra e giocare. Messico ‘70, quello sì che fu stressante. Ero tra i veterani della squadra, ormai mi avvicinavo alla fine della carriera. Avevo deciso che sarebbe stata la mia ultima Coppa, non potevo perderla». Infatti non perse. Quel 4-1 rifilato in finale all’Italia di Riva, Mazzola e Rivera è ancora scolpito nella nostra memoria.
Cosa ha provato a rivedere la sua infanzia sul grande schermo?
«È stato emozionante. Anni fa avevo girato Fuga per la vittoria con Sylvester Stallone, Max von Sydow e Michael Caine. Questo è un progetto diverso perché non mette in scena solo il Pelé calciatore ma anche la mia storia personale. Non m’interessava fare un altro film che mostrasse le mie prodezze, mi sono commosso rivedendo la mia gioventù. L’eredità che mi ha lasciato la mia famiglia si fonda sul rispetto e l’educazione, e questo è il cuore del film».
C’è il rapporto molto forte con suo padre João.
«Era un calciatore professionista, giocava nel Bauru, una piccola squadra dell’entroterra in seconda divisione. Si è rotto un ginocchio e ha dovuto smettere e per me è stato un dono di Dio: mi ha insegnato la vita, non il calcio. Quando già a 10-11 anni iniziavano a esaltarmi, lui mi ripeteva che prima di ogni altra cosa dovevo divertirmi, giocare per puro piacere. Diceva che avevo molto da imparare e dovevo lavorare sodo. Mi spingeva ad allenarmi sempre, a non dare mai per scontate le mie qualità. Penso sia un insegnamento fondamentale per le generazioni future di sportivi».
C’è un momento in cui ha capito di essere il più grande calciatore al mondo?
«Quando ho segnato il millesimo gol, al Maracana (il 19 novembre 1969, a 29 anni, ndr). Era un rigore, non ho mai avuto le gambe così pesanti. Quando la palla è entrata, mi sono precipitato verso la rete e sono rimasto col pallone in mano per godermi quel momento: avevo realizzato qualcosa in cui nessuno era mai riuscito prima».
Nella sua infanzia raccontata in Pelé ci sono anche bambini che giocano a piedi nudi perché non possono permettersi un paio di scarpini.
«Non c’è bisogno di nascere benestante per diventare un calciatore professionista e regalare spettacolo alle persone. Lavoro duro, e rispetto: solo questo porta a eccellere. Mi piacerebbe che il pubblico cogliesse questo messaggio dal film».
Grandi atleti del passato sono diventati un simbolo in grado di abbattere barriere razziali, politiche, civili. Lo sport può ancora aspirare a questo?
«Quando andammo in Svezia per la Coppa del Mondo del ‘58 molti di noi non erano mai stati fuori dal Brasile. Arrivammo e nessuno conosceva il nostro Paese, i giornalisti sapevano appena dove fosse, lo confondevano con l’Argentina, l’Uruguay. Diventammo davvero celebri solo dopo aver vinto quel campionato. Oggi viviamo una grande contraddizione: la possibilità di comunicare è enorme rispetto ai miei tempi, dovrebbe essere molto più facile trasmettere il proprio pensiero, eppure questo accade con minore efficacia. Muhammad Ali non aveva a disposizione i mezzi di oggi, eppure le sue parole hanno raggiunto molte più persone di quanto probabilmente accadrebbe ai nostri giorni. Forse la gente non ascolta più come una volta. O forse gli atleti non sentono la stessa necessità di prendere posizioni nette».
Le Olimpiadi di Rio sono alle porte. Sarà lei ad accendere la fiamma?
«Spero di essere fisicamente a posto, di recente non sono stato molto bene. Non c’è nulla di deciso. Non ho mai giocato le Olimpiadi perché ero un professionista e a quel tempo non era concesso averne nelle squadre olimpiche. Coincidenza vuole che il Brasile non abbia mai vinto l’oro: mi piacerebbe giocare almeno due minuti in una finale che il Brasile magari vincerà. Ho 75 anni e quasi cinque mesi per prepararmi: potrebbe essere la mia grande possibilità».