la Repubblica, 24 maggio 2016
«Da venti anni guardo negli occhi il mio amico Oetzi e gli chiedo come morì». Colloquio con Eduard Egarter Vigl, anatomopatologo che studia la mummia di Similaun
Quando rimangono soli, lui e lui, il professore si mette accanto al suo paziente e lo guarda. «A volte per ore». Guarda quel corpo che in diciannove anni ha studiato millimetro su millimetro, il braccio sinistro piegato in modo innaturale, il torace compresso, i denti smaltati e le mani, i piedi appena incrociati e il ventre. Ma, sempre, gli occhi poi finiscono negli occhi. «Perché sono vivi, espressivi. Perché hanno dentro il dolore e forse un po’ di cattiveria. Perché vorrei tanto che mi raccontassero tutta la storia e mi svelassero il segreto».
Il professor Eduard Egarter Vigl è uno studioso di 67 anni dal tratto gentile. È stato per molti anni primario di anatomia patologica a Bolzano e docente alla Claudiana, e andrà in pensione ad agosto dopo avere dissezionato, analizzato e indagato cadaveri per tutta la vita. Ma, soprattutto, il professor Egarter è stato per quasi un ventennio il conservatore del più importante reperto archeologico del secolo, l’uomo di Similaun, per tutti Oetzi: l’unica mummia che chiamiamo per nome come un vecchio amico. «In fondo sì», ammette il professore sorridendo. «Noi due siamo proprio diventati amici».
C’è penombra nella sala del Museo archeologico dell’Alto Adige, accanto alla culla di Oetzi. Un grande frigorifero che emette una luce azzurrina, il riverbero delle piastrelle di ghiaccio che circondano la mummia. È distesa, il corpo come glassato da una strana lucentezza. «Si tratta di una patina di ghiaccio spessa quattro millimetri, serve per la conservazione». E se il mistero dell’uomo di Similaun è qualcosa che dura da 5 mila anni ed è tra noi dal 1991, cioè da un quarto di secolo, ma allo stesso tempo sappiamo – grazie alla scienza medica – moltissimo di lui (statura di un metro e 54, peso, malattie, occhi castani, l’intolleranza al lattosio, l’ultimo pasto a base di carne grassa e farro, il gruppo sanguigno e poi l’artrosi, un principio di aterosclerosi, la provenienza italiana e non austriaca per via dei pollini presenti nei polmoni e nell’intestino, tra poco persino il tono della voce), se è evidente la causa della morte (dissanguamento dopo un colpo di freccia alla spalla sinistra), resta quell’abisso umano che intriga il professor Egarter: «Cosa ci faceva Oetzi sul ghiacciaio, a tremila metri d’altezza? Da cosa e da chi stava scappando? Vi confesso che gli enigmi legati alla professione di patologo forense rappresentano, per me, il cuore del mistero di questa persona. Non dimenticate che stiamo parlando di un omicidio».
Il professore lo chiama così: persona. E anche “lui”, Oetzi, amico. «Il mio lavoro richiede rispetto di fronte a ogni cadavere, ne avrò visti migliaia. Prima di un’autopsia bisogna fare un passo indietro e poi restare lucidissimi, distaccati per un paio d’ore, concentrati solo sulle domande alle quali dare risposta. Anche Oetzi è un mio paziente, il più particolare di tutti. Un morto molto, molto speciale». I globuli rossi più antichi della storia.
Curare. Avere cura. Prendersi cura. Di una mummia? Possibile? «Certamente sì. Oetzi è rimasto nel ghiaccio per cinque millenni, sepolto da una provvidenziale nevicata poche ore dopo la morte. Ma quando è tornato tra noi, l’ossigeno ha cominciato a ossidarlo. E siccome si tratta di una mummia umida, cioè con acqua nei tessuti, non come quelle egizie, per capirci, il problema è mantenere il grado di umidità per proseguire gli studi sul corpo e resuscitare qualche reazione chimica e biologica».
Prendersi cura di Oetzi ha significato molti gesti, moltissime tecnologie. «Abbiamo progettato e costruito la cella frigorifera, quella di riserva e quella del laboratorio per gli esperimenti. Lo abbiamo prima avvolto in teli di plastica umida imbottiti di ghiaccio secco per evitare la disidratazione, però non funzionava. Abbiamo cercato soluzioni e trattamenti termici diversi, infine lo abbiamo messo dove lo vedete adesso». Giorni di lavoro, e anche molte notti: «Prima di un esame sul suo corpo, e prima di decidere quali e quanti farne, non più di uno ogni due o tre anni, bisogna scongelare la mummia, raccogliere l’acqua, studiarla. Riportare Oetzi a temperatura ambiente richiede ore. Quando succede, io rimango due giorni senza dormire». E le mani su quel corpo («Scongelato è così flessibile, così adatto ai nostri esami») le ha quasi sempre messe il professore: «Sì, sono cose che preferisco fare da me». Per dovere, per rispetto del ruolo, per paura che altri non sappiano farlo nello stesso modo. «Anche se poi mi dico che un chirurgo non opera mai un parente, e che nessuno di noi farebbe l’autopsia a un congiunto». Non è l’unica barriera tra la scienza e l’indicibile, tra un bisturi e le risposte di un medico legale: «Le autopsie sui bambini le ho quasi sempre delegate, ho tre figli e quel confine è sempre stato troppo persino per me». Il professore chiama un suo assistente, il tecnico che ha progettato le soluzioni scelte per conservare Oetzi. L’inventore delle piastrelle di ghiaccio e molto altro ancora. Lui è Marco Samadelli, ha 44 anni e, se si parla di mummie da proteggere, nessuno al mondo ne sa di più. «È stata una grande avventura, un percorso partito da Bolzano per arrivare ovunque. Molto resta da fare, però credo che Oetzi non corra rischi per almeno altri cinquecento o mille anni». Dietro gli occhiali spessi, Marco non mostra romanticherie: «Per me, l’uomo di Similaun è sempre stato un semplice bene culturale, non un cadavere. È un potenziale di insegnamenti ancora in parte inespresso, un oggetto che ci dice sempre più cose e sempre nuove».
Sorride, il professor Egarter, e dà un colpetto sulla spalla del ragazzo. C’è un po’ di malinconia per l’addio che s’avvicina: «Un occhio piange, perché Oetzi mi ha cambiato la vita e mi ha spalancato universi di conoscenza. L’altro occhio però ride, perché il lavoro è stato pesante e prima o poi doveva finire».
Ma pensione o non pensione, l’amico di Oetzi salirà ancora, una volta all’anno, lassù sul ghiacciaio al Giogo di Tisa, come sempre dal 1997. «Una volta ho anche pernottato in tenda». Dopo cinque ore di cammino, il professore si fermerà sulla conca cercando tracce millenarie in quel mistero bianco. «Quando sono lassù, immagino l’ultimo viaggio di Oetzi, la sua fuga già ferito, l’illusione di essere al sicuro, la sosta per mangiare, la freccia che lo colpì alle spalle, a tradimento, la sua lenta morte. Lo vedo mentre si costruisce le armi, perché questo stava facendo quando lo uccisero. Lo immagino aggressivo, ancora guerriero però spaventato. Come medico e, posso dirlo, come amico, più della sua vita e del suo carattere mi tormenta la sua fine. Era solo o contro tanti? Perché la freccia non gli trapassò la spalla? Cosa ne rallentò la corsa?». Se avesse una sola domanda a disposizione, il professore saprebbe come spenderla. «Sì, gli chiederei come morì». Glielo domanda da vent’anni guardandolo negli occhi e quelli no, non sono di ghiaccio.