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 2016  maggio 06 Venerdì calendario

Caltagirone, cinquant’anni di calcoli esatti

«Palermo non è più una capitale. Qui non succede nulla. Siamo sui binari vuoti della Storia. Bisogna andare a Roma». Nel 1926 Francesco Caltagirone si rivolse così al padre, Gaetano, lasciando la Palermo dove la sua famiglia aveva edificato buona parte dei villini liberty di Via Libertà e una porzione rilevante di Via Roma, per andare a lavorare nella capitale del Regno d’Italia.
Oggi Francesco Gaetano Caltagirone, figlio di quel palermitano innamorato di Roma che dopo la laurea in ingegneria avrebbe edificato negli anni Trenta molti dei palazzi di Via Barberini e Piazza Dalmazia, ha un dubbio simile in merito al nostro Paese. «Il Paese sta vivendo una crisi drammatica. Economica e politica. Ma, soprattutto, l’Italia sembra avere perso la sua collocazione. Siamo forse sui binari vuoti della Storia? Mi chiedo se oggi non sia necessario lasciare Roma e Milano, per dire l’Italia nel suo insieme, per andare a Londra e a New York».
L’analogia storica funziona. Novanta anni fa la meravigliosa città – violenta e prospera, teatrale e colta – del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa era ormai stata inghiottita dalla sua crescente marginalità storica. Nel pieno di una globalizzazione che ha ridisegnato le mappe della geo-economia e gli equilibri internazionali l’Italia, il cui declino è incarnato da una Roma così mal amministrata da diventare la cloaca di se stessa e da tempo immemore priva di un vero disegno strategico di lungo periodo, rischia di addormentarsi, come accaduto un tempo alla città del Regno delle Due Sicilie.
Nella decomposizione del potere novecentesco, che ha visto la sfarinatura dell’asse fra Torino e Milano fatto di grandi fabbriche orientate soprattutto al mercato interno e finanza chiusa, di dirigismo pubblico e elitarismo privato, una delle componenti più solide e coese è rappresentata dalla realtà del Gruppo Caltagirone che, imperniato sulla produzione di cemento, sull’immobiliare e sulle grandi opere, si è espanso negli anni alla finanza e all’editoria. Il gruppo ha un fatturato annuo di 1,4 miliardi di euro, un patrimonio netto complessivo di 3 miliardi di euro e 4mila addetti. Il profilo di oggi è l’esito delle vicende di ieri. In ogni storia imprenditoriale, si intrecciano i destini personali e i passaggi di un Paese, le sorti dei singoli e la traiettoria della comunità nazionale. Nella vita di questa famiglia, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, cambia tutto. Nel 1946 Francesco Caltagirone, che sotto il Fascismo morente è stato a Roma uno dei principali finanziatori della Democrazia Cristiana degasperiana, sceglie di vendere il suo patrimonio e di raggiungere Buenos Aires. Nel 1947, muore di infarto. Un mese dopo la moglie, Giuseppina Cacciatore, riporta la famiglia in Italia, dove l’unica fonte di reddito rimasta è un diritto di superficie trentennale su un fabbricato di Via Barberini. Francesco Gaetano Caltagirone ha 4 anni.
«L’assenza del padre – riflette – è stata compensata dalla rappresentazione di mia madre, che ne ha sempre fatto una sorta di stella a cui tendere. Una visione confermata dal giudizio di quanti lo hanno conosciuto. Il dolore nella mia famiglia si è così ricomposto intorno al perno di mia mamma, con la sua prudenza e il suo senso di libertà, mitigato e insieme reso più forte dal limite imposto ai figli del no all’illegalità e alle droghe». Il lessico famigliare è questo. La biblioteca di casa Caltagirone, in quella Roma borghese degli anni Cinquanta, è ricca. La tranquillità economica è garantita dal diritto di superficie di Via Barberini. Al liceo scientifico San Giuseppe De Merode, in Piazza di Spagna, il giovane Francesco Gaetano affina la passione e la competenza nella matematica e nella fisica. A 16 anni, nelle pause dalle lezioni e dallo studio, ha la possibilità di iniziare a frequentare i cantieri e gli uffici di zio Saverio, il fratello del padre da cui questi aveva separato nettamente gli affari. «Facendo i calcoli a mente – ricorda – superavo in velocità lo zio, impegnato a digitare i numeri sulla calcolatrice».
In un ipotetico ritratto dell’imprenditore da giovane, questa razionalità matematica e questa attitudine algebrica sono elementi fondamentali. E, non a caso, a 19 anni sceglie la facoltà di ingegneria, che anni dopo – nel melodramma del capitalismo italiano, composto da nomignoli fantasiosi e da retropensieri, da titoli cortigiani e da tratti effettivi del carattere – gli varranno l’appellativo di Ingegnere. Anzi, “IngegnerCaltagirone”, da pronunciare tutto insieme e di filato, duro negli affari come le sue dita, affilate e robuste, tutte nervi e prominenti da mani mobili che sono l’accumulazione di muscoli.
Tornando al tempo non semplice in cui era scaduto il diritto di superficie che aveva dato tranquillità economica alla sua famiglia, è a 23 anni che il giovane Francesco Gaetano realizza la sua prima operazione. Insieme al cugino Gaetano, figlio di zio Saverio, trova una area interessante in Via Silvestri, vicino a Villa Pamphili: la firma del compromesso avviene esattamente 50 anni fa, il 6 maggio 1966. È una transazione da 70 milioni di lire. L’assegno consegnato alla controparte è di 7 milioni di lire, il 10 per cento del valore. Su questi terreni sorgeranno i primi tre fabbricati, con 43 appartamenti. «In quella occasione – ricorda – sperimentai una innovazione in cui, allora, nessuno credette, mentre oggi la adottano tutti: scelsi di non avere operai in proprio, ma di spezzettare la costruzione in 15 diversi contratti di appalto, con una sorta di parcellizzazione del meccanismo produttivo».
Per tutti gli anni Sessanta e Settanta costruisce molto. E lo fa – lui che è segnato dal profondo interesse per la storia romana, volumi e numismatica, letture e collezionismo – con la Roma reale di allora. «La mia prima esperienza con l’editoria – dice – fu nel 1976 con la rivista culturale “Prospettive nel mondo”, che ruotava intorno a Amintore Fanfani. Fondata da Gian Paolo Cresci e Augusto Del Noce, vi scrivevano Rosario Romeo e Piero Barucci, Ettore Bernabei e Giuseppe Petrilli. Ho sempre avuto simpatia per il Partito Liberale. Avrò visto due volte, in occasioni pubbliche, Giulio Andreotti». Un paradosso, dunque, per una persona inseguita – nell’immaginario pubblico diffuso e nella memoria mediatica falsata – dal doppio pirandelliano dell’«A Fra’, che te serve?», frase formulata non da lui, ma da un suo quasi omonimo (lo scomparso Gaetano Bellavista Caltagirone), a Franco Evangelisti, luogotenente di Andreotti.
Nel romanzo dell’impresa – fra potere e quotidianità, economia e passioni – un altro capitolo saliente è la capacità di tenere insieme attività imprenditoriali e investimento sui mercati monetari. Il 15 agosto 1971 il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon annuncia la fine del sistema di Bretton Woods, basato sulla convertibilità in oro del dollaro. Ogni cosa muta. I tassi e i cambi oscillano paurosamente. Adoperando il raziocinio predittivo per analizzare i sistemi con molte variabili e sottoposti a shock crescenti, Caltagirone prevede che i tassi di interesse sarebbero saliti molto. Alla fine del 1973 va in una filiale della Cariplo e attiva tutti i mutui possibili, anche sugli immobili ancora da costruire, per un valore di 18 miliardi di lire. Nel gennaio del 1974 i tassi iniziano a muoversi. E, fra aprile e luglio di quell’anno, Caltagirone apre e chiude le cartelle fondiarie collegate ai mutui, con una scelta tecnica che gli permette di portare il debito a 12 miliardi di lire e di realizzare dunque un guadagno di 6 miliardi di lire. «Così abbiamo formato la prima provvista finanziaria, essenziale per lo sviluppo imprenditoriale del gruppo», rammenta Caltagirone.
Il vero salto imprenditoriale è compiuto nel 1984 con l’acquisizione del Gruppo Vianini, posseduto dalla famiglia Morelli e dal Vaticano. Dice Caltagirone: «Non fu facile. Da 20-30 dipendenti, solo impiegati, passammo ad averne 5-6mila, in tutto il mondo. Di solito, nel capitalismo italiano le piccole imprese a un certo punto si fermano, non crescono. Noi riuscimmo a compiere la necessaria rivoluzione organizzativa e di mentalità». La metamorfosi nella cultura di impresa si concreta nella ristrutturazione delle attività italiane della Vianini, avvenuta anche con il consueto fortissimo controllo dei costi. Sui lavori all’estero prevale di nuovo l’abilità di operare con le regole dell’ingegneria finanziaria: a differenza dei concorrenti, la Vianini inizia a utilizzare la possibilità, prevista dalle gare di appalto internazionali, di essere pagata in valute forti e di sostenere i costi in valute deboli, ottenendo così un vantaggio sulle asimmetrie nei cambi spendibile in particolare per rendere redditizie le grandi opere nei Paesi in via di sviluppo. «Gradualmente – afferma Caltagirone – abbiamo costruito il nostro codice imprenditoriale. L’equilibrio è delicatissimo e spesso, nella nostra economia, non viene raggiunto dall’imprenditore, che non a caso resta piccolo. Serve la sua bravura. Ma serve anche l’organizzazione imprenditoriale, che rende comprensibile a tutti quello che tu fai. E, in più, occorre un controllo dei costi rigorosissimo, in grado di garantire sempre un cuscinetto finanziario alla tua specializzazione». Il secondo, fondamentale, tassello nella costruzione del mosaico industriale del gruppo avviene con la partecipazione del gruppo alla privatizzazione di Cementir, dismessa nel 1992 dall’Iri. Nella elaborazione di una nuova equazione del potere, quel passaggio è fondamentale. «Un misso dominico degli Agnelli venne a trovarmi – racconta Caltagirone – e mi chiese di farmi da parte. Fu gentile, ma fermo: “Ingegnere, consideri che la cosa interessa alla Famiglia”. Ci pensai su e gli risposi: “Capisco. Interessa anche alla mia, di famiglia”». Caltagirone non si fa da parte e partecipa all’asta. La base è di 300 miliardi di lire. Vince arrivando ad offrirne 482.
Il quel no non c’è soltanto l’espressione di un carattere solido e ruvido fino alla durezza. C’è anche il segno dei tempi in cui il Paese si sta aprendo a una pluralità di poteri e di interessi. Tutto, intorno, sta cambiando. Il 1992 è pure l’anno di Tangentopoli e del collasso della Repubblica dei partiti. Per un lustro i lavori si fermano. «Allora – ricorda Caltagirone – ci dedicammo alla ristrutturazione delle attività in Italia e all’espansione internazionale, con acquisizioni in Turchia, Danimarca e Svezia che portarono il peso dell’estero al 90% del nostro fatturato».
La paralisi nella edilizia in Italia degli anni Novanta favorisce anche la diversificazione nell’editoria: nel 1995 Caltagirone compra «Il Tempo», nel 1996 lo cede per rilevare il «Messaggero» e nel 1997 acquisisce il «Mattino»; nel 2000 quota l’intero gruppo editoriale. Nel processo magmatico di ricomposizione degli equilibri del potere, Caltagirone assume un profilo di indipendenza. Gioca da solo. Nel 2001, nello scontro su Montedison fra Mediobanca e Fiat ormai divise dopo cinquant’anni di rapporto siamese, al culmine Caltagirone non sceglie una delle due parti, ma affida a Merrill Lynch il compito di vendere al miglior offerente sulla piazza di Londra il suo – decisivo – 9%, diviso in pacchetti pari ciascuno all’1 per cento. Tanti, tanti, tantissimi soldi. Nell’estate del 2004, quella dei newcomers variopinti e sbottonati che su Bnl e Rcs provocano il fastidio e accendono la fantasia di molti, l’Ingegnere in gessato grigio ha – simbolicamente – solo una cosa in testa: il ricordo della calcolatrice dello zio Saverio, con cui fare i conti di quanto si guadagna rispetto all’investimento iniziale. Poca dietrologia. Soltanto la solitudine della matematica finanziaria. Perché la sostanza, in questo caso, è liquida. E, su Bnl e Rcs, garantisce – di nuovo – plusvalenze significative. Non c’è, però, l’istinto della “mosconata”, la speculazione rapida e fortunosa di Borsa. C’è la sistematicità dell’investitore. Dopo essere stato in Monte dei Paschi di Siena, è adesso in Generali, in UniCredit e in Acea.
In cinquanta anni di attività imprenditoriale, come un protagonista di un romanzo di Carlo Emilio Gadda, Caltagirone ha sviluppato “una certa praticaccia del mondo, del nostro mondo detto latino”. Ha reagito con sostanza dura: «Il potere? Il potere è dire di no. È chiedere quello che ti spetta. Senza farti da parte, se credi che sia giusto non farlo». Nella quadrata geometria della sua personalità, si avverte però il senso di una malinconia: «I costruttori costruiscono case. I produttori d’auto producono auto. Quelli di frigoriferi fanno frigoriferi. In Italia, invece, i costruttori sembrano essere figli di un Dio Minore», riflette Caltagirone. Questo, per un rapporto spesso ambiguo con la politica e l’amministrazione («noi non abbiamo mai avuto una variante su un nostro terreno, mai una nostra area da agricola è diventata edificabile»), per il carattere dirigistico dei piani regolatori («ma le sembra che a Roma non si sia mai potuti uscire da maglie strettissime e standard, con villette tutte uguali e nessuno sviluppo verticale vero?») e per la cifra ideologica («se penso a Bagnoli, a come è ridotta, per l’opposizione populista e di sinistra a una idea che ne avrebbe fatto un lungomare meraviglioso»).
Cinquant’anni di attività. Nella sola Roma fra i 70 e gli 80 mila appartamenti costruiti. «Oggi un romano su tredici vive in una casa costruita dal nostro gruppo», dice con un senso di compiutezza Caltagirone. È servita la calcolatrice di zio Saverio. È servita, per citare l’Imperatore Adriano, un’anima tutt’altro che “vagula e blandula”. È servita la testa da ingegnere. L’equazione, impostata in tutta la sua complessità cinquant’anni fa, oggi è stata risolta.