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 2016  maggio 05 Giovedì calendario

Il crollo del titolo di Unicredit è voluto dei suoi soci forti. Ecco come e perché

I responsabili del calo del titolo Unicredit andrebbero cercati almeno in parte tra i grandi soci di Unicredit. Merito dell’ingegneria finanziaria e della volontà di proteggere i propri bilanci, secondo quanto ricostruito. Andiamo con ordine. Un pezzo importante della quota Unicredit in mano ad Aabar non è in realtà proprio in mano al fondo sovrano di Abu Dhabi, che ha mantenuto i diritti di voto. È il 4% del capitale dell’istituto. Il pacchetto è legato a una operazione finanziaria denominata “collar”, con Morgan Stanley, che ha lo scopo di fissare un limite alle perdite (in caso di calo del titolo) e ai guadagni (in caso di rialzo).
Quello del fondo arabo, che ha in totale il 6,5% dell’istituto ed esprime un vicepresidente, non è però l’unico caso. Operazioni analoghe sono state realizzate anche da altri soci stabili della banca, come il gruppo Caltagirone, titolare di circa l’1%, la Fondazione Crt o il gruppo tedesco Allianz. L’effetto di queste operazioni, positivo per i bilanci degli azionisti che hanno così minimizzato le perdite, è stato però di incrementare la quota di capitale disponibile per le vendite “allo scoperto”, per scommettere sul calo del titolo. Per vendere allo scoperto serve prendere in prestito i titoli da vendere, ricomprando a un prezzo più bassi i titoli da restituire al prestatore. Secondo i dati raccolti dalla piattaforma specializzata Markit, i titoli Unicredit disponibili per il prestito sono oltre il 15% del capitale. Una prova ulteriore che una parte consistente del prestito titoli arrivi dai soci stabili, spiega una fonte di mercato, si ha guardando l’andamento dei titoli effettivamente in prestito. In concomitanza dell’assemblea di aprile si è avuto un picco, con oltre il 12% del capitale in prestito, a fronte di un andamento del titolo poco variato negli stessi giorni. «Questo vuol dire che parte dei soci sono andati in assemblea con i titoli in prestito», spiega una delle fonti interpellate. La grande quantità di capitale disponibile per il prestito, il basso costo del prestito e la grande liquidità del titolo, uno dei più trattati a Piazza Affari, fanno sì che sul mercato Unicredit sia diventato la “proxy” (un pezzo che replica l’intero insieme) per le scommesse sul ribasso del mercato italiano o sulle banche europee. Il risultato è che proprio Unicredit dalla fine di gennaio abbia fatto peggio di Mps, per dire, perdendo il 5,47% in più della banca senese. Il titolo, nell’ultimo anno, ha perso oltre il 50% del suo valore.
Vanno male anche gli altri bancari, spiegano dall’istituto, in un contesto che vede le banche penalizzate dal difficile contesto economico e regolamentare. In tutto questo però i soci stabili non sono contenti malgrado la limitazione delle perdite (”hedging”, in gergo finanziario). A far precipitare il tutto, spiegano alcune fonti, sarebbe stata la difficile operazione con Vicenza, per cui Unicredit aveva fornito la garanzia sull’aumento da 1,5 miliardi. Un’operazione che avrebbe portato seri rischi per l’istituto, si spiega, ingiustificati anche rispetto alle commissioni previste. Perciò sul mercato sono tornate le voci di un possibile ricambio al vertice. Su questo i grandi soci sarebbero ormai coesi, ma manca un accordo sui possibili successori dell’ad Federico Ghizzoni e del presidente Giuseppe Vita. Sul primo nome, oltre ad Antonio Horta Osorio, ad di Lloyds Bank, si fa il nome di Sergio Ermotti, numero uno di Ubs. O di Jean Pierre Mustier, ex capo dell’investment banking di Unicredit passato poi a Societe Generale e al fondo Tikenau Capital.