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 2016  maggio 05 Giovedì calendario

Gli Afterhours resistono. E hanno fatto un album sulla morte e sulla rinascita

Raggio di sole pallido sull’acqua del Naviglio, paesi che scompaiono veloci, non c’è macchia per terra e in cielo, mentre la macchina sfreccia tra squarci di Padania, come si intitolava, non a caso, l’ultimo album degli Afterhours. Quattro anni fa. Una vita. E una morte.
I capelli di Manuel Agnelli, il leader storico della band, sono tornati lunghi, giacca a righe, jeans e camicia scuri, stivali neri come sempre. «Il nuovo disco uscirà il dieci giugno», spiega mentre guida verso lo studio. «Neanche un anno fa sembrava tutto finito», racconta. «Eravamo marci. E quello che pensavamo l’uno dell’altro finiva per ripercuotersi sulla musica. Attraverso molte sofferenze ci sono stati dei cambiamenti, due persone se ne sono andate: Giorgio Prette (il membro di più vecchia data dopo il fondatore Manuel, ndr) e il chitarrista Giorgio Ciccarelli. Due persone nuove sono entrate, Stefano Pilia, chitarrista storico dei Massimo Volume e Fabio Rondanini, batterista-mostro che suona con Calibro 35 e molti altri».
La macchina si infila in un ampio cortile, l’edificio è bianco, vende stufe elettriche, moto, incredibili biciclette realizzate con vecchi pezzi arrugginiti. Il resto della band si sta fumando una sigaretta o beve orzo alla macchina del caffè, come fossero impiegati, ma il look dice tutt’altro. L’effetto è surreale. «Non ce ne frega niente dello studio fico», spiegano, «qui possiamo fare quello che vogliamo». «Si chiama “Germi”», spiega Manuel, «come il nostro primo album in italiano. È un posto sporco e confortevole, che suona molto bene». Il titolo del nuovo disco a prima vista è strano, quasi giocoso. «Si intitola Folfiri o Folfox. Sono due trattamenti per la chemioterapia. È un album che parla di malattia e di morte ma che, incredibilmente, non è scuro e il titolo va in questa direzione. In questi anni molti di noi hanno avuto dei lutti. Io ho perso mio padre. Il dolore se non ti annienta ti fa trovare energie che non pensavi di avere. Così questo è anche un disco molto caldo dove Padania era ghiacciato perché doveva raccontare il gelo che ci sentivamo intorno. In totale controtendenza, questo è anche un cd doppio, di diciotto brani».
Parte il primo e si è subito spiazzati. Una chitarra acustica, un cantato viscerale “Avevamo un patto io e te ma poi ti si è spento dentro/ allora l’ho firmato da me/ da solo a sei anni, giù in fondo ad un sogno/ giurami che noi non moriremo mai”, poi il brano si apre, diventa avvolgente. «Si intitola Grande, parla di un patto fatto con mio padre per cui non saremmo mai morti: la realtà è diversa ma il brano finisce dicendo che “in questo sogno qui non moriremo più”». Poi c’è Oggi, dove invece la realtà prende il sopravvento. Un inizio quasi languido, pinkfloydiano e poi una chitarra acustica, una voce profonda che dice “E non c’è altro modo di decidere/ dalla finestra della tua stanza ci entra il sole/ davvero l’hai meritato/ che possa non andare più via”.
«Ognuno ha il suo modo di rapportarsi al dolore, ho cercato di raccontare le mie sensazioni senza essere didascalico né piagnone. Così come in un altro pezzo che si intitola E ti cambia il sapore e parla di chemioterapia: uno degli effetti è quello dell’alterazione del gusto che qui però viene analizzata dal punto di vista psicologico. È un brano sull’assenza di Dio. Siamo adulti, crediamo che il rock lo sia a sua volta: non è più come agli esordi una cosa spensierata, da teenager, e crediamo che possa affrontare argomenti ritenuti tabù». Nel disco naturalmente ci sono anche ballate di quelle che hanno reso celebri gli Afterhours. Una di queste è il singolo che uscirà alla fine di maggio, Non voglio ricordare il tuo nome mentre tra pochi giorni verrà pubblicato Il mio popolo si fa, un brano sporco, molto rock che ristabilisce da subito il contatto con il pubblico più fedele della band. «È un pezzo sull’oggi. Io non sono disilluso e credo che ognuno sia artefice del proprio destino. Per questo ho sempre cercato di lottare contro l’autoesilio della scena rock indipendente creando tour come il Tora! Tora!, o Hai paura del buio e usando Sanremo per dire e fare delle cose. Insomma, ho toccato con mano che cambiare si può: basta impegnarsi».
Oggi però come si fa? Tutto sembrerebbe più difficile. «Bisogna usare qualsiasi mezzo. Lo scorso anno ho ricevuto la proposta di andare a fare il giudice a un talent e ho rifiutato. Ma ci sto ripensando: se posso usarlo per qualcosa di importante, va benissimo. Il peso mediatico, lo sappiamo, è forza e la televisione è ancora l’unica cosa che ti può far fare quel salto. Bisogna andare dove c’è la gente ma naturalmente portando se stessi». Come ha fatto Morgan. «Morgan è uno pericoloso. Incontrollabile. E per me il rock oggi deve ancora essere questo. Essere “pericoloso” non significa chissà che: vuol dire parlare di cose di cui gli altri non parlano con un linguaggio, una profondità, una schiettezza diversi». In passato ci sono state però molte critiche per questo, in parte proprio dalla scena che avete cercato di supportare, quella indipendente che non crede nelle cause collettive e oggi è più individualista di un tempo... «Va benissimo. Io parlo per quelli che si riconoscono in un certo progetto: chi non si riconosce deve portare avanti il proprio. E, se ne ha la forza, ci deve spazzare via».