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 2016  maggio 05 Giovedì calendario

Basterebbe segnare col pennarello nero la gamba o il braccio da operare

A volte basterebbe un pennarello nero. Lo dicono anche gli esperti: nell’era della medicina super tecnologica, dei macchinari sofisticati e delle procedure blindate, avrebbe senso ricordarsi di fare un segno di inchiostro sul corpo del paziente prima di entrare in sala operatoria. Si eviterebbe così di intervenire sul ginocchio sbagliato, di passare il bisturi sul fianco del rene sano, di preparare la protesi per la spalla che funziona, insomma di commettere uno degli 80 gravi “errori di lato” registrati ogni anno in Italia su 8 milioni di interventi tra quelli in regime di ricovero e quelli ambulatoriali.
Il linguaggio burocratico degli ospedali li chiama proprio così, “errori di lato”. Sono figli delle simmetrie del nostro corpo, assai meno rari di quello che si potrebbe pensare. Quanti ne avvengono? Quando si entra nel campo degli sbagli del sistema sanitario i dati ballano. Colpa della scarsa voglia di segnalare i sinistri da parte dei medici e degli ospedali. Comunque, secondo le ricerche internazionali, capitano più o meno una volta ogni 100mila interventi. In Italia significa appunto almeno 80 pazienti l’anno operati nel posto sbagliato, uno ogni quattro giorni. Casi dai quali originano processi, sospensioni, cause di risarcimento. Lo sanno bene all’ospedale di Lucca dove a metà aprile un urologo ha asportato a un paziente il rene sano e lasciato intatto quello malato di cancro.
Gli errori chirurgici rappresentano circa un terzo di quelli che avvengono negli ospedali. Secondo una ricerca condotta in alcune delle più grandi strutture italiane qualche anno fa, ma i cui risultati sono ritenuti ancora validi, dannegerebbero circa 150mila dei 4 milioni sottoposti a intervento. Ovviamente molto spesso si tratta di problemi banali, che magari si risolvono in qualche giorno, ma talvolta invece il malato muore. Uno degli sbagli più diffusi ha a che fare con “strumenti o altri materiali lasciati all’interno del sito chirurgico”, secondo la dicitura del ministero. È circa sei volte più frequente dell’errore di lato.
La signora Anna Maria Casadei ha intuito già molto tempo fa l’importanza di fare un segno sulla parte del corpo da operare. «Nel 1994 ho fatto un intervento a un seno e prima di entrare in sala ci ho disegnato sopra una margherita – racconta – Poi nel 2008 ho fatto la stessa cosa per l’operazione all’anca. Così il chirurgo non poteva sbagliare». Certamente non lo sapeva, ma la signora Casadei ha anticipato un protocollo medico. Per evitare gli errori in sala, ormai molti ospedali chiedono che i chirurghi prima dell’inizio dell’intervento compilino una “check list”, fatta propria anche dal ministero della Salute. Si tratta di verificare il compimento, spuntandole su un foglio, di una serie di operazioni. Tra queste c’è la somministrazione di terapie antibiotiche e anti coagulanti, il controllo delle lastre ma anche dell’identità del paziente, e la descrizione dell’intervento. Ma c’è anche, appunto, l’accertamento “che il sito chirurgico sia stato marcato”.
Come spiega Riccardo Tartaglia, coordinatore del Comitato delle Regioni per la sicurezza delle cure, «negli Usa ci sono campagne pubblicitarie dove si mostra il chirurgo che, talvolta anche insieme al paziente, traccia un segno sula zona da operare». Una precauzione che sembra banale, ma che viene presa molto sul serio e purtroppo non sempre è rispettata. Un po’ come il lavaggio delle mani degli operatori sanitari per evitare infezioni nei malati.
La cultura della segnalazione dell’errore non è ancora sviluppata nel nostro Paese. E infatti dal 2005 al 2012 sono stati comunicati al ministero soltanto 1.900 eventi sentinella, tra i quali gli errori di lato sono appena 26. Del resto ci sono Regioni che non inviano i dati degli errori in corsia. «Da noi non si dice di aver sbagliato per paura di perdere la reputazione con i colleghi, per timore delle conseguenze legali, per la poca disponibilità a discutere dei pochi sbagli», dice sempre Tartaglia, che fa anche parte della task force istituita dal ministro Beatrice Lorenzin dopo il caso della piccola Nicole, la neonata morta a Catania nel febbraio 2015. Si tratta di un gruppo di esperti che interviene sui casi, sospetti, di errore grave. L’intento è quello di trovare cosa non ha funzionato nelle procedure e raccogliere informazioni per evitare che eventi del genere si ripetano. «Qual è la prima giustificazione che adduce chi ha sbagliato? Che nella sua carriera una cosa del genere non era mai successa», racconta Tartaglia. Anche Gianluigi Melotti, presidente onorario dell’Acoi, associazione dei chirurghi ospedalieri, sottolinea come «la raccolta dei dati non funziona. Gli errori di lato segnalati sono meno di quelli che avvengono. Anche perché non hanno sempre a che fare con organi o grandi articolazioni, ma anche con varici o ernie». Su un punto gli esperti sono tutti d’accordo. Non basta lo sbaglio di un solo medico per provocare il disastro. «Quasi sempre è un fatto che riguarda più professionisti – dice Andrea Pietrabissa, chirurgo di Pavia con alle spalle 5mila interventi – Ormai lavoriamo per procedure, ci sono controlli multipli per ciascun paziente. Servono a ridurre il rischio di qualcosa che continuerà a succedere ma che dobbiamo rendere meno probabile». In certi casi anche grazie a un pennarello.