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 2016  maggio 05 Giovedì calendario

L’antimafia che si autodistrugge. A proposito di Pino Maniaci

La vittima più illustre è il presidente del Consiglio, che il 4 dicembre 2014 telefonò al direttore di Telejato dopo aver saputo che gli avevano impiccato i cani. «Sono Matteo Renzi», «presidente buonasera», «...solo per mandarle un grande abbraccio e un pensiero di solidarietà...», «è molto squisito, grazie del suo pensiero». Poco dopo l’ufficio stampa di palazzo Chigi si affrettò a comunicare l’avvenuto attestato di «vicinanza e apprezzamento per l’impegno coraggioso contro la mafia e la criminalità organizzata» profuso da Pino Maniaci. Il quale, nel frattempo, aveva già riso con la sua amica della chiamata «di quello stronzo di Renzi», con aggiunta di scherzosi scongiuri. Tutto intercettato dai carabinieri che stavano indagando sui presunti ricatti messi in atto dal giornalista attraverso la sua emittente; accumulando indizi sulla messinscena delle intimidazioni da parte di Cosa nostra che aveva ingannato finanche il capo del governo.
Se c’era bisogno di un ulteriore elemento per ribadire la frantumazione e l’autodistruzione dell’antimafia che consuma se stessa attraverso le speculazioni di chi nasconde interessi privati e privatissimi dietro le bandiere della legalità e del contrasto alle cosche, eccolo arrivare dall’ultima indagine della Procura di Palermo. Generalizzare è sempre un errore e ogni accusa andrà provata in tribunale, ma basta soffermarsi sui paradossi messi in luce dal «caso Maniaci» per comprendere l’intensità di un terremoto che rischia di travolgere tutta l’antimafia. Anche quella onesta e disinteressata, che comunque esiste e – c’è da augurarsi – continuerà a esistere.
Uno dei bersagli preferiti di Telejato era la gestione dei beni confiscati a Cosa nostra affidata all’ex presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, Silvana Saguto; la tv locale avviò una campagna contro la discutibile amministrazione dei tesori sottratti ai boss, e successivamente proprio la Saguto è incappata nell’accusa di corruzione e altri reati. Oggi tocca a uno dei suoi principali detrattori ritrovarsi inquisito per estorsione, tanto che la Procura di Caltanissetta, che conduce l’inchiesta sulla giudice, ha dovuto precisare che gli accertamenti sono del tutto indipendenti dalle denunce di Maniaci. Due vessilli dell’antimafia che si sono stracciati a vicenda, caduti entrambi in disgrazia – sia pure con indagini preliminari da verificare negli eventuali processi – per via delle loro stesse parole registrate dalle microspie.
Chi si ritiene tradito dal direttore di Telejato – come il vicepresidente della commissione parlamentare antimafia Claudio Fava, anche lui accorso a dargli solidarietà dopo «l’intimidazione» del dicembre 2014 – gli chiede conto delle frasi in cui mostra disprezzo verso i riconoscimenti ricevuti in virtù del suo declamato impegno contro i clan. Ma i paradossi non finiscono qui. C’è quello dell’ex pm di Palermo Antonio Ingroia, oggi avvocato, che ha assunto la difesa di Maniaci. Ieri ha puntato il dito contro la crocifissione mediatica del suo assistito e le «rivelazioni di segreto d’ufficio» sugli indizi a suo carico, schierato sul fronte opposto dei suoi ex colleghi titolari dell’inchiesta. Sono in buona parte gli stessi che con lui hanno istruito il processo sulla presunta trattativa Stato-mafia, nel quale un personaggio che pure ha calcato molti palcoscenici dell’antimafia, Massimo Ciancimino, riveste il doppio ruolo di testimone e imputato. Di concorso in associazione mafiosa e calunnia.