il Fatto Quotidiano, 4 maggio 2016
Quanto è brutta la vita nelle carceri egiziane
Sospetti prelevati nel cuore della notte da apparati della polizia segreta, a bordo di furgoncini anonimi, passamontagna in testa. Entrano nelle case dei predestinati passando sopra gli affetti delle persone, calpestando i loro diritti. I più fortunati ritrovano il loro caro dietro le sbarre di una stazione periferica di polizia o un carcere; altri rispuntano dal nulla come fantasmi, martoriati. Nell’Egitto del 2016, quello di Giulio Regeni purtroppo non è il solo caso di scomparsa da vivo e ricomparsa da morto, addosso i segni profondi ed evidenti delle torture, della barbarie. Le lancette dell’orologio della storia si sono spostate indietro esattamente di quarant’anni, ai tempi del regime militare dei “generali” in Argentina. Abd el-Fattah al-Sisi – capace di far arrestare 20 mila persone nei suoi due anni di presidenza, ha ricevuto il titolo di Feldmaresciallo per aver spiccato 3 mila condanne a morte – oggi al potere in Egitto, come Jorge Videla. Come Augusto Pinochet, capo dell’esercito, pronto a tradire il presidente cileno Allende che lo aveva nominato; la stessa parabola di al-Sisi, disposto a rovesciare l’ex presidente Mohamed Morsi, leader dei Fratelli Musulmani, che lo aveva nominato capo di Stato maggiore.
Il clima di terrore che si respira al Cairo e nel resto del Paese, sta riportando l’Egitto ai tempi di Mubarak, prima della rivoluzione di piazza Tahrir, con l’aggravante della ferocia e della frequenza degli atti. Il regime di al-Sisi vede sabotatori della Costituzione e del governo ovunque. Pochi mesi prima della rivolta sindacale, era toccato ai medici protestare per la violenta repressione, partita da un fatto banale: le cure, ritenute errate, alla moglie di un poliziotto, col medico trascinato in caserma e picchiato. Adesso, proprio in questi giorni, tocca ai sindacalisti, categoria molto eterogenea in Egitto, fatta di gente per bene, ma anche di tante ombre, come nel caso Regeni. È assai probabile che uno di loro possa averlo “venduto”, considerandolo addirittura una spia, lui, Giulio, che stava facendo uno studio sul salario minimo per tutti.
I torturati e violentati, sopravvissuti alle brutalità del regime, finiscono al Centro El Nadim che si occupa della riabilitazione, psicologica e non solo, delle vittime. Al comando c’è una donna piccola, ma tenace e decisa: “Negli ultimi due anni le cose sono peggiorate – spiega Magda Adly – più casi, tutti politici e di attivisti legati alle torture subite dalla polizia. Per questo a febbraio e aprile il ministero dell’Interno ci ha inviato i suoi “scagnozzi” in borghese per farci chiudere, senza risparmiare le minacce. Noi però andiamo avanti, perché siamo i soli a occuparci di questa gente. Le autorità si trincerano dietro presunte irregolarità della nostra ong. Temono la pubblicità dei casi che noi affrontiamo. Di recente abbiamo seguito un attivista torturato per almeno due settimane: botte, scariche elettriche, costretto in piedi, luce sempre accesa, senza dormire. Ora è un uomo distrutto, noi dobbiamo aiutarlo”.
A proposito di sindacati “perbene”: domenica la polizia ha disperso una manifestazione davanti alla sede sindacale dei giornalisti. L’ennesima. Alla fine della serata, dopo gli scontri, la polizia ha fatto irruzione nella sede e arrestato due giornalisti di un sito di informazione, Mahmoud Sakka e Amro Badr. La settimana precedente, erano stati i sostenitori di al-Sisi, al culmine di una manifestazione, a penetrare nella sede del sindacato e aggredire ipresenti: “Siamo nel mirino del regime – dice Khaled al-Balshi, vicepresidente del sindacato dei giornalisti – non era mai capitato prima che la polizia penetrasse nella nostra sede o che non muovesse un dito per fermare una folla politicizzata e filo-governativa. Siamo alla resa dei conti. Nelle manifestazioni del 25 aprile, sulla vicenda della vendita delle due isole all’A rabia Saudita (Sanafir e Tiran, nel golfo di Aqaba, simbolo di debolezza del regime), circa 40 colleghi sono stati arrestati, tra cui 4 europei. La maggior parte è stata rilasciata, ma alcuni rischiano lunghe detenzioni. Ci sono 25 giornalisti in prigione da due anni; alcuni di questi stavano indagando su cosa fosse accaduto a272 persone scomparse nel nulla. Io stesso sono stato arrestato con l’accusa di attentare alla stabilità del governo, senza un motivo”. Secondo Reporter Senza Frontiere, l’Egitto è al secondo posto per numero di giornalisti in prigione al mondo.
L’aria in Egitto è peggiorata proprio quel 25 aprile. Nella rete tesa dalla polizia sono finite decine di attivisti. Tra questi Ahmed Abdallah, presidente della Commissione per i diritti e le libertà. Abdallah era anche un consulente legale della famiglia Regeni. Sabato il suo caso finirà davanti al Procuratore generale del Cairo. Ieri i familiari e i colleghi lo hanno incontrato: “Il governo è stato capace di fermare 1.200 persone a una manifestazione – dice Mohamed Lotfy, il suo vice a Ecrf – molte sono state rilasciate, ma 170 sono rimaste in cella in attesa di giudizio. Per Ahmed hanno chiesto 15 giorni di proroga all’arresto. E accusato di terrorismo, assurdo. Uno che lotta per i diritti delle persone, degli ultimi, da sempre, accusato di essere un terrorista. Lo hanno picchiato, umiliato. Nonostante tutto il suo morale è alto. Il suo è un caso politico, non ha nulla di criminale. Dicono che la vicenda Regeni non c’entri nulla, che tutto si basa su alcuni presunti ‘documenti scottanti’. Fandonie. Il prossimo potrei essere io”.