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 2016  maggio 04 Mercoledì calendario

È possibile riformare un’economia rivoluzionaria, per di più islamica? Rohani ci sta provando ma non è detto che ci riesca

Per il presidente iraniano Hassan Rohani, vincitore anche della seconda tornata delle legislative, vale il vecchio motto coniato dal consigliere di Bill Clinton: «It’s the economy, stupid». Questo slogan per Rohani assume un valenza ancora più drammatica: la sua rielezione alla presidenza nel 2017 e lo stesso appoggio ricevuto dalla Guida Suprema Ali Khameni per la firma dell’accordo nucleare dipendono dalle performance economiche del suo governo. Risultati, a seconda delle fonti, assai contrastanti. Rohani appare, ovviamente, il più ottimista: «L’economia – afferma – è migliorata, il paese è pronto ad accogliere gli investimenti esteri. C’era una drammatica recessione, l’inflazione era al 45%, il Pil era a -6,8. Ora l’inflazione è scesa al 12,2, l’economia cresce, il Pil è a +9,4 il settore finanziario è stabile». 
Gli elettori gli hanno dato fiducia ma falchi e ultra-conservatori, che controllano di fatto due terzi dell’economia, sono in agguato. Il quadro non è così roseo come lo dipinge il presidente, un moderato che punta tutte le carte sull’apertura ai mercati e agli investimenti stranieri. Rohani ha disperatamente bisogno di portare a casa risultati concreti che sostengano la sua politica. Non è un caso che in questi giorni abbia ricevuto anche la presidente sud coreana Park Geun-hye. Nel 2011 l’interscambio tra i due paesi era a 10 miliardi di dollari, quasi superiore a tutto il volume con l’Europa, poi è precipitato alla metà e ora l’obiettivo e di portarlo a 30 miliardi di dollari. Se l’apertura dell’Iran all’Occidente ha vaste conseguenze strategiche, l’Oriente rappresenta per Teheran una realtà ancora più solida, come nel caso della Cina che negli anni delle sanzioni e dell’embargo petrolifero ha guadagnato quote di mercato colossali nella repubblica islamica: il presidente cinese Xi Jinping ha firmato con Teheran 17 protocolli di intesa per un controvalore di 600 miliardi di dollari entro i prossimi 10 anni. La Cina è il principale cliente del petrolio iraniano, l’interscambio commerciale nel 2014 era già a quota 54 miliardi di dollari Pechino fornisce ai Pasdaran oltre il 40% delle forniture militari, cui bisogna aggiungere quelle di Mosca. 
La crescita iraniana del 2016-2017, secondo le previsioni del Fondo monetario, sarà intorno al 4 per cento, un ottimo risultato se confrontato con quello dei Paesi della regione, superiore per esempio a quello di molti membri dell’Opec come Arabia Saudita e Kuwait. Ma le entrate, con il calo dei prezzi del greggio, non saranno certamente quelle degli anni d’oro del presidente ultraconservatore Ahmadinejad quando il greggio quotava 100 dollari e oltre al barile: la buona notizia è che con la fine dell’embargo l’Iran potrà aumentare la produzione di circa 600mila barili l’anno e conquistare nuove quote di mercato. Ma la concorrenza è forte, non a caso gli acerrimi rivali degli iraniani, i sauditi, hanno cominciato da attaccare con offerte al ribasso anche il mercato cinese.
Ma c’è un aspetto dell’economia e della società iraniana che fa ben sperare. Con una popolazione di 80 milioni, al 50% sotto i 30 anni e una generazione di giovani nati dopo la rivoluzione islamica del ’79 altamente istruita rispetto agli standard della regione, l’Iran può aspirare a diversificare la sua economia che conta naturalmente sulle seconde riserve al mondo di gas ed è al quarto posto per quelle petrolifere. L’Iran è il maggiore produttore di auto del Medio Oriente, come del resto di acciaio e uno dei principali nella petrolchimica. Per la prima volta dalla rivoluzione islamica di Khomeini del 1979, l’anno scorso l’Iran ha registrato un surplus della bilancia commerciale non petrolifera di 916 milioni di dollari. Liberato dalle sanzioni l’Iran potrebbe raddoppiare il suo Pil entro dieci anni, superando Turchia e Arabia Saudita. Il valore stimato del mercato iraniano sarà allora di 180 miliardi di dollari.
La domanda di fondo è questa: è possibile riformare un’economia rivoluzionaria, per di più islamica? L’impresa è ardua. In Iran ci sono circa 80mila tra moschee, templi e istituzioni religiose che amministrano terre e imprese come facevano i monasteri nel Medioevo europeo, quando la Chiesa faceva concorrenza in tutti i campi al potere temporale. Correggere il sistema, che ha larghe sacche di inefficienza, è la vera sfida per il governo di Rohani che ha promesso di far uscire l’Iran dall’isolamento. Ha fatto il primo grande passo con l’accordo sul nucleare ma riformare dall’interno la repubblica islamica è assai più complicato: in fondo anche lui è un mullah e, come dicono a Teheran, per cambiare dovrebbe tagliare il ramo dell’albero dove è seduto.