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 2016  maggio 04 Mercoledì calendario

Bill Lievesley ricorda il Grande Torino e suo padre nel 67° della tragedia di Superga

Le emozioni, a volte, arrivano all’improvviso. Pure a 77 anni e nonostante il proverbiale humor inglese permetta di sorridere anche delle tragedie più grandi. Basta toccare l’elica dell’aereo che si schiantò a Superga il 4 maggio 1949 o rivedere le foto dei funerali del Grande Torino e per Bill Lievesley, figlio dell’allenatore degli Invincibili, il ricordo si fa realtà. È venuto appositamente da Doncaster per il 67° anniversario della tragedia e oggi sarà l’ospite d’onore del Toro, prima alla Sisport e poi alla Basilica.

Mister Lievesley, qual è l’ultimo ricordo di suo papà Leslie?
«Al Filadelfia: lui allenava ed io giocavo lì. Avevo 10 anni».
Il posto giusto per imparare...
«Sì, solo che ero negato. Nonno era portiere nell’Arsenal, papà aveva giocato nel Manchester United e Crystal Palace, mentre due zii sono stati professionisti. Io amavo il ciclismo, ho corso anche il Giro d’Inghilterra e impazzivo per Coppi».
Che era un tifoso e amico del Grande Torino...
«Vero, ma purtroppo non l’ho mai conosciuto. Però sono cresciuto con gli scappellotti di Castigliano, che era sempre da noi, e mi impressionava vedere Mazzola: aveva forza e classe».
Perché non era mai venuto prima a Torino per il 4 maggio?
«In verità c’ero nel 2009 per il 60° anniversario. Mi ero detto: “Se non vado ora, rischio di non andarci più”. Però nessuno sapeva della mia presenza e infatti non volevano farmi entrare a Superga. Ero un po’ deluso, anche perché mi ero fatto tutta la strada a piedi».
Scusi, ma da dove?
«Dal centro città. Ho vissuto due anni a Torino da bambino, ma non parlo più l’italiano e non sapevo come fare: la chiesa si vedeva bene da lontano e sono partito. Andata e ritorno a piedi, anche perché faceva bello».
Una cosa inedita... Ma cosa ha pensato quando ha visto tutta quella gente sul Colle?
«Ero colpito dalla passione della gente per quella squadra, perché non me lo aspettavo. Per me era una tragedia famigliare, ma lì ho capito che era stato qualcosa di enorme per tutti».
Cosa ricorda di quel giorno?
«La pioggia e poi la confusione, con la notizia che veniva data alla radio. Capii e non capii».
E i funerali?
«Una folla immensa e un silenzio pazzesco. Io ero solo con mamma Nelly e camminammo tantissimo dietro la bara».
Sulla Stampa dell’8 maggio 1949 c’è un articolo in cui viene riportata la sua lettera per ringraziare i compagni di classe. Se la ricorda?
«Oh (prende la pagina dell’epoca, ndr). Ma certo: i compagni della quinta Vittorio Alfieri mi scrissero tutti delle letterine di condoglianze. Ora mi torna in mente il mio amico Renato Obermito e anche il traduttore di papà, il signor Lorenzo. Purtroppo andammo via subito e abbiamo perso i contatti».
Perché?
«Credo per voltare pagina».
Per questo ha faticato a tornare?
«No, era difficile trovare il tempo per farlo bene. Ora ho visitato il museo del Grande Torino e ho capito che cosa ha fatto».
Ma è vero che suo padre doveva allenare la Juve?
«Sì. Loro volevano che l’allenasse subito dopo i successi con i ragazzi del Toro e l’esperienza con l’Italia all’Olimpiade del 1948, ma per correttezza rimase nel Toro fino al 1949 e ha perso la vita. Ci ho pensato spesso in questi anni».
Rientra nel destino?
«Non lo so. Io ci credo, poi ogni persona è responsabile della propria fortuna. Anche se papà durante la guerra era nella Raf e fu l’unico sopravvissuto ad un incidente aereo, mentre a Torino finì fuori pista perché il carrello non si aprì. Era pericoloso viaggiare con lui, vero?».