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 2016  maggio 04 Mercoledì calendario

A dieci anni dalla morte di Giuliano Gramigna, il critico sensibile che anticipava i tempi

Ci sono critici e critici. Quelli che accarezzano il mainstream, per i quali tutto è buono purché piaccia al lettore. Quelli cioè che saltano sul carro di Emmanuel Carrère non prima che Limonov si imponga in classifica. Quelli che scoprono Elena Ferrante al quinto romanzo, quando la quadrilogia diventa bestseller americano. Prima non esistevano, né l’uno né l’altra: la qualità dipende dal consenso pubblico. Ci sono i critici che diventano maestri sparando sentenze per partito preso: non hanno bisogno di leggere, sanno a priori che tutto (o quasi) fa schifo. Ci sono invece, oggi meno di ieri, i critici la cui sensibilità anticipa i tempi. Giuliano Gramigna, che per una vita scrisse per i quotidiani (soprattutto per il Corriere, ma anche per Il Giorno), era di questi. Se n’è andato dieci anni fa in punta di piedi, coerente con il suo stile elegante e discreto. Alcuni, alzando il sopracciglio, lo assimilano alla critica para accademica, troppo filologica, troppo strutturalista, troppo psicoanalitica, troppo tecnica, troppo faziosa, troppo pesante, troppo tutto e soprattutto poco brillante. Oggi la brillantezza vince. Tra ridente brillantezza e onesta serietà non c’è partita. Si lasciò attraversare dalla filologia, dallo strutturalismo, dalla linguistica, dalla psicoanalisi, prendendo il buono dove c’era, consapevole che bisognava possedere i ferri del mestiere.
Nel 2016, uscito in un Meridiano, è facile dire che Gianni Celati è (o non è) un grande scrittore. Gramigna lo segnalò nel 1971, quando uscì Comiche, il suo primo romanzo, salutandolo come «uno dei più originali e significativi della stagione». Lo ripeté nel 1973, quando furono pubblicate Le avventure di Guizzardi, «tra i pochissimi libri che spiccano per l’energia e la vitalità». Si potrebbe continuare con altri, tantissimi, autori, che Gramigna ha visto prima degli altri. Riusciva anche, Gramigna, a collocare i libri recensiti nel contesto contemporaneo e nella tradizione letteraria, quasi storicizzando, perché aveva una visione non limitata al testo che teneva sotto gli occhi, ma capace di spaziare dagli italiani agli stranieri, dalla prosa alla poesia, dai classici ai contemporanei con una competenza impressionante. Nessuna arroganza, anzi forse il limite di Gramigna fu la timidezza. Non a caso Arbasino, che lo stimava più di tutti, conclude L’ingegnere in blu facendo il suo nome con un auspicio irrealizzabile: «La cosa più bella che potrebbe farci vedere Gramigna, che ha già tutto, sarebbe poi una grinta dura, un piglio aggressivo, autoritario, cattivissimo, da ammazzatutti e da castigamatti». Era quello che mancava a Gramigna, l’aggressività: infatti gli umorali aggressivi gliel’hanno rimproverato (con aggressività).
Senza alzare la voce, senza preoccuparsi delle classifiche e del successo, Gramigna, che era narratore e poeta in proprio (e di notevole livello), battezzò i poeti e i narratori maggiori quando ancora non erano consacrati: seguendo Pasolini, Zanzotto, Sereni, Caproni, Luzi, Testori, Bianciardi, Bilenchi, Buzzati, Arbasino, Manganelli, Ottieri, Volponi, Raboni, Malerba, Tabucchi... Era un patito di Proust e di Gadda, ma afferrò subito Scarpa e Simona Vinci. Vide pregi e difetti in Baricco. Ha scoperto i poeti nati negli anni Quaranta e Cinquanta, da Viviani a Valduga, da Krumm a Magrelli. Aveva le sue passioni «sperimentali», come il D’Arrigo di Horcynus Orca, ma anche i gialli quando i gialli e i polizieschi venivano considerati, senza distinzione, letteratura minore. Recensì con entusiasmo nel 1972 La donna della domenica di Fruttero & Lucentini, ben prima che diventassero nazionalpopolari. Scrisse saggi innovativi perché era un critico che non smetteva di studiare: individuò tessere manzoniane in Bacchelli e in Gadda, fece notare la presenza di Flaubert, per antitesi, ne La vita violenta di Pasolini.
Spesso (non sempre) era di difficile lettura. Nel 1965 scrisse un articolo intitolato «Al buon lettore piace essere disturbato», una sorta di manifesto del suo modo di intendere la letteratura, la critica e il pubblico: mai essere complice, mai strizzare l’occhio. Semmai, forzare le cose: descrivere, analizzare, giudicare per consigliare o sconsigliare motivando sempre i propri giudizi. Oggi, in tempi di blog e di social, probabilmente un quotidiano lo terrebbe a debita distanza, proprio quando il suo fiuto, il suo rigore, la sua dedizione alla letteratura sarebbero ancora più necessari che in passato.