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 2016  maggio 04 Mercoledì calendario

1976, l’unica volta che abbiamo vinto la Coppa Davis. Un libro di Dario Cresto-Dina ci porta indietro nel tempo, nell’epoca dei compromessi

Il libro di Dario Cresto-Dina ci porta indietro a un’era in cui il tennis conservava alcune vestigia dei “gesti bianchi”, così ben narrati da Gianni Clerici; e la politica italiana coltivava l’arte di quel compromesso, che sarebbe poi diventato “storico”. Correva l’anno 1976: un anno di svolta, ma anche di paure per un terrorismo che cominciava a mostrare il suo volto feroce e vigliacco. Alla vigilia di elezioni che secondo alcuni aruspici avrebbero portato al sorpasso del Pci sulla Dc, Enrico Berlinguer aveva detto in un’intervista a Giampaolo Pansa di sentirsi più sicuro “di qua” (cioè nella Nato), che “di là” (dove c’era il Patto di Varsavia). E centinaia di giornalisti di tutto il mondo si erano riversati in Italia in attesa dell’evento. Che non ci fu, ma per poco.
Lo psicodramma tennistico e politico sarebbe arrivato qualche mese dopo. “Sei chiodi storti” (quelli che Adriano Panatta portava sempre con sé per scaramanzia) è infatti la storia di una finale di Coppa Davis, l’unica vinta dall’Italia, per la quale il Paese si spaccò tra i fautori del sì e i sostenitori del no: andare o non andare a giocare nel Cile del sanguinario dittatore Augusto Pinochet, dopo che l’Urss aveva rifiutato di giocare la semifinale anche in campo neutro? Erano gli anni della guerra fredda: sport e politica non si potevano dividere con un taglio netto.
Da noi, con Andreotti a Palazzo Chigi, Forlani alla Farnesina, Berlinguer a Botteghe Oscure e Craxi in via del Corso, finì all’italiana. La squadra partì addirittura con la benedizione del Pci, espressa con sibillina abilità dal senatore Pirastu, delegato allo sport in direzione: «Noi ci abbiamo provato a non mandarvi, ma ora saremo i primi a fare il tifo per voi».Vincemmo, anche se non fu un’impresa sportivamente gloriosa contro una squadra mediocre. «Con quelle pippe posso giocarci pure io», aveva detto con romanesca sincerità Nicola Pietrangeli, capitano non giocatore che aveva da poco compiuto 43 anni. I fautori del sì festeggiarono con moderazione tradendo l’imbarazzo per aver fornito uno strumento di propaganda al regime (a Fiumicino non c’era un solo tifoso ad accogliere la squadra al ritorno). E i sostenitori del no finsero indifferenza, vergognandosi di ammettere una certa soddisfazione per la prima (e unica) Davis vinta dall’Italia. Il solo che non mostrò mai imbarazzo, anche perché era stato coerente dal principio alla fine, fu Nicola Pietrangeli, che quella Coppa se la portò per una notte nel suo letto, abituato ad accogliere ospiti ben più avvenenti.
Personalmente mi trovai coinvolto, e schierato, per una serie di circostanze un po’ casuali. Un anno prima, quando ero ancora corrispondente da Mosca, era arrivato da Santiago Roberto Toscano, uno di quel coraggioso manipolo di diplomatici che, tra il ‘73 e il ‘75, avevano dato asilo nella nostra ambasciata a oltre 700 cileni perseguitati dal regime di Pinochet. Toscano (che oggi scrive per questo giornale) abitava nel mio palazzo e la sera parlavamo spesso della tragedia cilena. Ma non era questo il motivo per cui, nel settembre del 1976, tornato da poco in Italia, avevo chiesto al mio giornale, “La Stampa”, di seguire la semifinale di Davis contro l’Australia di Newcombe e Roche. Volevo scrivere di tennis per passione, specie per il doppio (e Panatta-Bertolucci schiantarono i cinque volte campioni di Wimbledon Newcombe-Roche). Ma dopo la vittoria sull’Australia, che ci portava dritti alla finale contro il Cile, mi ritrovai a scrivere di politica. Ripensando ai racconti tragici di Roberto Toscano, mi schierai nel campo del no, di cui la neonata “Repubblica” di Scalfari era la punta di lancia.
Quell’Italia spaccata in due Dario Cresto-Dina la racconta con una tecnica narrativa che mi ha ricordato quella del bellissimo “Tennis” di John Mc-Phee, grande giornalista del “New Yorker”. L’evento sportivo (in “Tennis” è la semifinale del primo US Open della storia, tra Arthur Ashe e Clark Graebner) resta sullo sfondo, quasi sfuocato, per lasciare il primo piano alle tante storie che gli ruotano attorno, professionali, umane, politiche, sociali, perfino economiche. Il risultato, in “Sei chiodi storti”, è un affresco che avvince, fino al punto che ti chiedi come va a finire anche se il risultato lo conosci da 40 anni, in cui la fluida narrazione è sorretta da una solida ricerca sulle fonti e sulla cronaca, come solo i bravi giornalisti sanno fare. E, nelle pagine conclusive, un tocco di delicato amarcord personale stimola un po’ di malinconia per un’era dove i “gesti bianchi” non erano solo nel tennis.