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 2016  maggio 03 Martedì calendario

I giudici del tribunale dell’Aia hanno deciso: il marò Girone può tornare in Italia in attesa del processo

Il marò Salvatore Girone potrà lasciare l’India e tornare in Italia, in attesa che il tribunale arbitrale dell’Aia decida dove si terrà il processo a lui e a Massimiliano Latorre (già a casa in convalescenza) riferito alla morte di due pescatori indiani. Lo ha deciso il collegio stesso dei giudici arbitrali riuniti nella capitale olandese.
Oggi si conosceranno i particolari della sentenza, presa all’unanimità dai cinque arbitri (compreso uno indiano). Si sa già che Delhi e Roma dovranno concordare, davanti alla Corte suprema di Delhi, le garanzie che l’Italia porrà in essere per assicurare che, se i giudici arbitrali decidessero che il processo ai due marò si deve tenere in India, Girone e Latorre tornino a Delhi.
Il ritorno a casa del militare italiano, dunque, non è questione di giorni: il problema delle garanzie dovrà però essere risolto entro tre mesi, sulla base delle linee suggerite dal tribunale dell’Aia, in particolare che Girone consegni il passaporto alle autorità italiane, che non lasci l’Italia senza il permesso della Corte suprema indiana, che Roma informi la Corte stessa della sua situazione su basi trimestrali.
La svolta che si era intuito essere in arrivo si è compiuta. Siamo lontani dalla soluzione del caso. Ieri si è solo deciso che i marò possono stare in Italia fino a quando gli arbitri avranno deciso dove vanno processati: sono accusati di avere ucciso, durante una missione antipirateria, due pescatori davanti alle coste del Kerala il 15 febbraio 2012.
La sentenza non arriverà prima degli ultimi mesi del 2018. Poi, il processo per stabilire i fatti potrà finalmente cominciare, si vedrà dove. Il dato di fatto importante, la chiave per interpretare quel che è successo e quel che succederà, però, è che ora la vicenda è affidata alla legge internazionale.
Se c’è una lezione da trarre da questo caso aperto da oltre 51 mesi è infatti che l’Italia scopre che esiste un diritto internazionale. E che può funzionare. Soprattutto se accoppiato a un’azione diplomatica decisa.
In questi quattro anni, sia Delhi sia Roma hanno commesso errori, si sono confrontate testa a testa tra rinvii e polemiche politiche nei due Paesi. A un certo punto, il governo di Narendra Modi ha capito che il contenzioso stava danneggiando l’India. In qualche modo, doveva uscire dal confronto diretto con Roma, aprire a una soluzione. Non avrebbe però potuto farlo su basi bilaterali, in un accordo fuori dai tribunali: l’opinione pubblica e le opposizioni in Parlamento lo avrebbero accusato di cedimento (gli avversari del partito del Congresso lo stanno facendo in ogni caso). Poteva però aprirsi davanti a un’entità terza: Roma gli ha offerto l’opportunità.
La decisione italiana di ricorrere all’arbitrato internazionale – maturata ai tempi in cui ministro degli Esteri era Emma Bonino, decisa formalmente poi da Federica Mogherini nell’aprile 2014 e portata avanti da Paolo Gentiloni – è stata insomma il passaggio decisivo per costruire la soluzione ottenuta ieri, rispetto alla quale l’India è stata collaborativa di fronte al tribunale dell’Aia.
Assieme a essa, è stata fondamentale la sua realizzazione, cioè la sinergia tra avvocati e diplomazia: i primi, guidati da sir Daniel Bethlehem, hanno costruito in diverse fasi il caso, prima per avere gli elementi che consentissero di arrivare all’arbitrato e poi per ottenere il rientro di Girone; la seconda, per mettere pressione sull’India, in diverse sedi, affinché contribuisse a intraprendere una soluzione basata sulla legge internazionale e non su promesse, illusioni e rapporti di forza.