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 2016  maggio 01 Domenica calendario

«L’insegnamento è solo un mestiere come un altro, come fare l’idraulico. La letteratura invece si nutre di isolamento». Parola di Jeffrey Eugenides

La casa di Jeffrey Eugenides, una villetta di tre piani nell’area dell’università di Princeton, New Jersey, è piena di gufi. Sulla libreria, sui tavoli, appesi ai muri, disegnati. Ha iniziato a collezionarli a Berlino alla fine degli anni Novanta mentre, con grande difficoltà, provava a scrivere il libro per cui avrebbe vinto il Pulitzer: Middlesex. Durante una delle sue notti inquiete lo scrittore nato a Detroit nel 1960 sognò un enorme gufo stilizzato alla maniera di Klimt che piombava dall’alto, afferrava le sue braccia con gli artigli e gli soffiava alito caldo nella bocca. Il messaggio era chiaro: il gufo – animale sacro ad Atena, dea della saggezza – era sbucato all’improvviso per infondergli la forza per finire il libro. E così fu.
Da allora non esiste scrittura senza la vigilanza di almeno un gufo.
Sta scrivendo in questo momento?
«Scrivo ogni giorno, dalla mattina appena mi sveglio al pomeriggio: la continuità è fondamentale per il mio lavoro. Dai 18 ai 40 anni non facevo altro che leggere perché non sapevo nulla e dovevo imparare tutto: a quei tempi leggevo molto più di quanto scrivessi. Adesso le cose si sono piuttosto invertite».
Scrive a casa o ha un ufficio?
«Ho quasi sempre lavorato in casa, solo a Chicago avevo un ufficio. All’ultimo piano c’è una piccola stanza con il tetto spiovente, tipo garage, che mi riporta indietro al college, ai primi tempi della mia carriera. Leonardo diceva che le stanze piccole aiutano la concentrazione. Il luogo dove scrivo non deve mai essere troppo carino o confortevole. Nella vecchia casa la stanza dove lavoravo aveva una grande porta a vetri da cui si vedeva il giardino: era un disastro. Per scrivere ho bisogno di operare in un ambiente di privazione».
Per quale motivo?
«È un modo per tornare a quella fase della vita in cui scrivevo solo per il piacere di farlo, prima di diventare uno scrittore professionista, prima delle interviste, delle recensioni, delle telefonate degli agenti. Con il primo libro ( Le vergini suicide, da cui Sofia Coppola ha tratto nel 1999 un film, ndr ) è cambiato tutto. Ricreare le condizioni delle origini mi fa bene».
Stare a contatto con giovani aspiranti scrittori, grazie al suo lavoro di docente all’Università di Princeton, la aiuta?
«Non prendo mai storie o spunti dall’università. La mia vita si esaurisce nella scrittura e nel pensiero compulsivo di essa. L’insegnamento non c’entra nulla con questo, è solo un mestiere come un altro, come fare l’idraulico. La letteratura è molto distante dal mondo pratico e dalle attività quotidiane: si nutre di isolamento».
È stato sempre così?
«C’è stato un momento nella mia vita, uno solo, in cui ho avuto una fase “Parigi anni Venti”. Quando vivevo a Berlino avevo molti amici, per di più artisti visivi, con cui condividevo pensieri e uscivo spesso. Era la fine degli anni Novanta, la città intorno a noi era in trasformazione, la vita costava poco, c’erano caos e vita dappertutto: è stato un periodo meraviglioso. Adesso confesso che non mi importa molto delle idee delle altre persone o delle conversazioni intellettuali. Preferisco trovare ispirazione per strada, passeggiando: nei negozi, negli ospedali. Cammino e vedo che cosa succede».
Nelle strade di Princeton succedono molte cose?
«Certo non è un posto terribilmente interessante, però sono convinto che più tempo passi in un luogo, più lo diventa. Tutti i luoghi hanno un potenziale. Solo recentemente, per esempio, ho scoperto l’esistenza di un centro di recupero per tossicodipendenti qui in città. Quando pensi a Princeton immagini una ricca città carina piena di studenti, soltanto passando qui molto tempo capisci che invece ci sono tante storie diverse... Prenda Alice Munro, forse la mia scrittrice preferita in assoluto. Non si è mai mossa dall’Ontario, le sue storie sono tutte ambientate lì. Credo che sia riuscita a trovarle proprio perché era fissa lì, come Elena Ferrante che probabilmente è sempre rimasta a Napoli».
Come gestisce una dimensione così totalizzante, e alienante, della scrittura con l’essere padre?
«Mia figlia ha 17 anni e sa prendersi cura di sé. Io devo cucinare ed essere presente. Quando era piccola la madre ha fatto molto più di quanto abbia fatto io. All’epoca scrivevo Middlesex, ero molto concentrato sul lavoro. Certo, la mia testa è sempre stata focalizzata sui suoi bisogni: medicinali, insegnanti, beni di necessità. Ma non basta: un figlio richiede di essere sempre connesso con lui e con la comunità che gli ruota intorno. Questo per me è meraviglioso perché mi costringe a stare lontano dal mio egoismo. Il mio è un lavoro che ti porta a essere egoista».
L’identità di genere è al centro di «Middlesex», in cui il protagonista, Calliope detta Cal, è un ermafrodito: un tema attuale nel dibattito pubblico.
«Quando è uscito Middlesex nessuno parlava di queste cose, infatti all’inizio il libro non andò bene: le recensioni erano buone, ma il pubblico aveva paura della storia. Il Pulitzer mi ha aiutato tantissimo: dopo il premio le persone hanno iniziato ad avere meno timore. Oggi non scriverei Middlesex perché sarebbe un tema troppo scontato: tutti parlano di identità di genere, il discorso è ovunque e sarebbe molto difficile delineare il personaggio con tutti questi condizionamenti. Invece Calliope è venuta fuori un po’ alla volta, tra letture, ricerche, memorie personali: da adolescente pensavo molto a questi temi, grazie a David Bowie, a Oscar Wilde, ai libri sulla sessualità degli anni Settanta».
Come nascono i suoi personaggi?
«Attraverso il processo della scrittura. Inizi a scrivere, fai delle prove, metti insieme memorie e persone che conosci, e piano piano iniziano a prendere consistenza. All’inizio i personaggi cambiano moltissimo, perché devono avere senso e contemporaneamente innescare reazioni. Poi però ci sono cose che succedono da sole, non prevedibili, e a cui i personaggi devono rispondere. È un progetto costante di creazione. È come programmare un robot affinché cammini per strada. Anche se lo programmi alla perfezione, succederanno cose in strada che non puoi prevedere e a cui lui dovrà reagire. Cadrà e tu lo dovrai rimettere in piedi. Così accade con i personaggi: devi continuamente rimetterli a posto».
C’è qualcuno che la aiuta in questo processo?
«Dovrei chiedere più aiuto ma sono sempre troppo imbarazzato e preoccupato per farlo. Tendo a far leggere le bozze solo alle persone più vicine».
Da tempo si parla di un suo libro di racconti in arrivo. A che punto è?
«È quasi finito. Scrivere racconti è molto difficile, più difficile dello scrivere romanzi, perché devi lasciare fuori troppe cose senza perdere la densità narrativa e il significato».
Che idea si è fatto della nuova generazione di scrittori?
«Se dovessi basarmi sui miei studenti – tra i quali il rapporto donne-uomini è ormai 8 a 1 – direi che il futuro della letteratura è senza dubbio femminile. Per quanto riguarda i contenuti, le nuove generazioni sono molto “confessionali”, ma credo che a breve inizieranno a relazionarsi con il potere, le élite, la diseguaglianza. I temi usciti fuori dal binomio Sanders-Trump che, con le ovvie differenze, esprimono lo stesso tipo di disagio: la distribuzione del denaro e del potere. Il prossimo presidente, come i futuri romanzieri, dovrà tenere conto di queste pulsioni».
Trump la preoccupa?
«Dipende dalle settimane, ma cerco di non essere preoccupato. Hillary Clinton vincerà le elezioni e ha davanti a sé decisioni cruciali: la riforma sanitaria deve essere estesa o ridotta? Il congedo di maternità e paternità diventerà la norma? Istanze come queste, spinte dalla crisi del 2008, hanno trovato una grande cassa di risonanza nella campagna elettorale. Il prossimo presidente dovrà dare a esse una direzione».