la Repubblica, 1 maggio 2016
Un messaggio ci salverà
«Non ne possiamo più delle app: sono ingombranti, lente e frustranti». Così parlò Sam Lessin, già super-manager che ha lasciato Facebook per fondare Fin, un servizio di assistenti virtuali, robotici e umani, che «troveranno risposte, manderanno messaggi e ricorderanno tutto per conto vostro». Non è che uno dei pionieri dell’incipiente bot economy che il suo ex capo Mark Zuckerberg ha tenuto a battesimo un paio di settimane fa a San Francisco annunciando l’apertura di Messenger e WhatsApp a software esterni attraverso i quali sarà possibile comprare fiori, hamburger, notizie, servizi bancari e molto altro. Via normali messaggini, senza bisogno di scaricare niente. «Lo userete come Siri, Echo o Google Now, con l’unica differenza che…. funzionerà» chiosa malizioso Lessin, citando alcuni dei più famosi assistenti vocali del momento. Se la promessa sarà mantenuta, potrebbe essere una rivoluzione. Di addii prematuri è però lastricata internet, come quando una celebre copertina di Wired (marzo ‘97) congedava il browser a favore dei servizi push, quelli che ci avrebbero mandato le informazioni direttamente nella casella email. Non è andata esattamente così. Stavolta però potrebbe essere diverso.
Intanto la fame di app è in calo, dopo il pantagruelico banchetto che, dal 2007 del primo iPhone a oggi, ne ha fatte scaricare circa cento miliardi. È stato un mercato molto ricco (quaranta miliardi di dollari) e altrettanto disuguale (circa metà degli introiti sono andati ai venti principali sviluppatori e delle otto app presenti nel 94 per cento degli smartphone ben cinque sono di Google). Soprattutto un dato fa pensare: un quarto delle app scaricate viene abbandonato dopo il primo utilizzo. Uno spreco di tempo (di download) e di spazio (sul cellulare) che i bot risolverebbero. Galoppano invece i numeri della messaggistica. WhatsApp raggiunge un miliardo di persone (un utente medio lo usa duecento minuti alla settimana), Messenger novecento milioni e in totale parliamo di un pubblico di 2,5 miliardi di esseri umani che, in un paio d’anni, dovrebbero arrivare a metà della popolazione mondiale. Gli adolescenti ci passano già più ore che sui social network. Mi viene in mente Jonathan Crary quando scrive in 24/ 7 (Einaudi) che “l’enorme quantità di tempo che trascorriamo dormendo, affrancati da quella paludosa congerie di bisogni artefatti, rappresenta uno dei grandi atti di oltraggiosa resistenza degli esseri umani alla voracità del capitalismo contemporaneo”. La scommessa analoga qui è di colonizzare quest’immane oasi di socializzazione e convertirla a finalità commerciali. Immaginatevi se, oltre a mandare una faccina alla fidanzata, poteste anche, dallo stesso programma, prenotare un fine settimana romantico. È quello che promette Pana, agenzia di viaggio consultabile via messaggino. Operator, invece, è un risolvi-problemi generalista, orientato allo shopping. A Digit, via sms, puoi chiedere di spostare soldi dal conto corrente a quello deposito. E si tratta di un’avanguardia minima, per la maggior parte disponibile negli Stati Uniti, di legioni di software che stanno per invadere il mercato.
Memore di tante novità spacciate per fuochi d’artificio e poi rivelatesi patetici petardi, chiedo a un esperto di quantificare il fenomeno. «Al momento» risponde Michael Vakulenko, direttore delle strategie della britannica VisionMobile, «la categoria più promettente di bot ha a che fare con l’assistenza ai clienti. Promettono di rimpiazzare gli antiquati numeri verdi con sistemi automatizzati che, quando il software non sarà sufficiente, dirotteranno su operatori in carne e ossa. Dunque parliamo di un mercato potenzialmente grande quanto quello». Considerato che la compagnia telefonica At&t da sola spende ogni anno quattro miliardi di dollari per i suoi centomila operatori, si tratta di una torta gigantesca. Le incontrastate reginette della festa delle app sono state Apple e Google. Se ora Facebook riesce a trasmutare il Like in Buy, a condurre le danze in Occidente potrebbe essere lei. Ancora Vakulenko: «In Cina il leader è WeChat, in Giappone Line, in Corea del Sud KakaoTalk. Poi ci sono i piccoli come Skype, Telegram, Kik e Viber, ma sarà dura per loro scalfire il predominio di Zuckerberg». D’altronde, confessava a Bloomberg qualche giorno fa il capo di Messenger, David Marcus, «oggi non c’è guadagno ma gradualmente ci inventeremo un modo per monetizzare la piattaforma». Anche perché la gente ormai la scarica di più (cento milioni al mese da gennaio) di quanto non faccia con l’applicazione di Facebook. Confermando per via empirica il “peak” che le app tradizionali avrebbero ormai raggiunto.
La strategia è semplice e antica: consentire al proprio cliente di fare tutto senza lasciare l’ambiente in cui si trova. Era quello che succedeva con i portali negli anni Novanta, che offrivano la mail, le notizie, il meteo. O con Chrome, che da browser è diventato sistema operativo, giusto per nominarne un paio. Ora è il momento di Facebook che vorrebbe organizzare intorno alla messaggistica il resto della vita online. Usando una versione aggiornata di quelli che, nell’ormai classico Essere digitali del ‘95, Nicholas Negroponte chiamava «agenti intelligenti». I nuovi bot non sono che la prassi di quella teoria. Grazie al recente salto di qualità dell’intelligenza artificiale e ai passi avanti nella comprensione del linguaggio naturale. Oltre che a una maggior dose di realismo che M., il prototipo dell’assistente virtuale di Facebook, incarna bene. Dal momento che, come ha dimostrato un giornalista di Buzzfeed, molto spesso si limita a ricevere la richiesta e a smistarla a esseri umani che fanno il lavoro sporco. Un po’ come il «turco meccanico» di Maria Teresa d’Austria, l’automa che sembrava giocare a scacchi ma in realtà nascondeva al suo interno un maestro umano. Bit o atomi, quel che importa è il risultato. Se i bot ci semplificheranno la vita, consentendoci esperienze migliori di quelle cui le app ci hanno abituato, non ci penseremo due volte a liquidarle. Viceversa continueremo ad affollare il nostro schermo tascabile di icone one- night- stand. In attesa di meglio.