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 2016  maggio 01 Domenica calendario

«Ho fotografato tutti quello che volevo. E poi non ci sono più le grandi star di una volta». Parola di Terry O’Neill, l’uomo che diventò famoso grazie allo sbadiglio di un ministro

 Ci vuole occhio per cogliere l’attimo fuggente di una stella del cinema che fa colazione sul bordo di una piscina, la mattina dopo aver vinto l’Oscar, con la statuetta in bella vista sul tavolo fra una tazza di tè e i giornali sparpagliati a terra. «Ma è un po’ più facile, se ti sei svegliato al suo fianco prima di fotografarla», dice Terry O’Neill, scoppiando a ridere. La sua immagine del “post-Oscar breakfast” di Faye Dunaway, il 29 marzo 1977, vale davvero più delle proverbiali mille parole: c’è un’intera storia, in quel clic, inclusa la love story fra l’autore dello scatto e l’attrice, che era cominciata una settimana prima, li portò a sposarsi sei anni più tardi e a divorziare dopo altri tre. Adesso, a settantasette anni, O’Neill gira il mondo presentando mostre dei suoi ritratti: qualcuno è appeso alla National Portrait Gallery, tutti hanno contribuito a dargli la reputazione di fotografo dello show-business più famoso del pianeta. Dai Beatles ai Rolling Stones, da Richard Burton a Elizabeth Taylor, da Paul Newman a Sean Connery, da David Bowie ad Amy Winehouse, nessuno dei grandi della musica e del cinema è sfuggito al suo obiettivo. L’ultima esibizione è allestita in questi giorni in una cornice italiana di Londra: il Fiat Motor Village, concessionario nel cuore chic della capitale. Per la serata d’inaugurazione ci sono tappeto rosso all’ingresso, champagne e fragole al cioccolato, pubblico vip tra le fiammanti Fiat 500 che hanno conquistato gli inglesi come (o più) della Mini. Donne e motori sembrerebbe un cocktail familiare per il ritrattista delle celebrità. Ma lui arriva in autobus, solo, si scusa del ritardo e ordina un bicchier d’acqua.
Ricorda quando ha scattato la prima foto della sua vita?
«Certamente, avevo vent’anni».
Mai fatta una foto prima, da bambino, da ragazzo?
«Mai. Sono cresciuto in una famiglia povera di Londra. A casa mia non c’erano macchine fotografiche».
Chi gliene mise in mano una?
«La British Airways. Il mio sogno era fare il batterista jazz. E il grande jazz era nei club di New York. Non avevo i soldi per andarci, così risposi a un’inserzione per fare lo steward sulla nostra linea aerea nazionale, sperando che mi ci avrebbe portato».
E come andò?
«Mi assunsero, ma non come steward: a terra, al quartier generale. Meglio che niente, era pur sempre uno stipendio. Un giorno bisognava fotografare l’inaugurazione di un nostro nuovo aereo, il fotografo convocato per il servizio fece tardi, io ero lì e chiesero a me di scattare la foto. Ne feci un po’ e per caso ripresi un tizio che sbadigliava annoiato in un angolo. Scoprii che era il ministro dell’Interno, un tabloid volle la foto e mi pagò profumatamente. La mia carriera è cominciata così».
Ed è proseguita a Fleet street, la mitica “via dell’inchiostro” dove avevano sede tutte le redazioni dei giornali di Londra.
«Diventai il più giovane fotoreporter di Fleet street. Era un posto fantastico, mi divertivo come un pazzo, stavano esplodendo gli anni Sessanta, con il rock, la minigonna, la liberazione sessuale, e a me chiedevano di fotografarli».
Si considerava un paparazzo?
«Forse lo sono stato anch’io per un po’. E mi dicono che in Italia, dove avete inventato l’espressione, c’erano bravi fotografi specializzati nel rubare foto di gente famosa. Ma oggi qui a Londra sono cacciatori di immagini senza scrupoli. Non mi piacciono molto».
C’è una foto che le ha cambiato la vita?
«Eccome. Un giorno al Daily Sketch, il giornale per cui lavoravo, mi dicono di andare a fotografare quattro ragazzi che registravano canzoni in uno studio ad Abbey Road. Andai, scattai, mettemmo la mia foto dei Beatles in prima pagina e il giornale andò esaurito. Il giorno seguente ricevetti in redazione una telefonata che mi chiedeva di andare a fotografare un’altra neonata rock band: i Rolling Stones. Diventai amico degli uni e degli altri e da allora non ho più smesso di fotografare cantanti e gente di spettacolo».
È diventato anche amico di tutti?
«Di molti. Con Elton John ci sentiamo ancora. Con Frank Sinatra andavo a bere a Hollywood. E con Brigitte Bardot, a Saint-Tropez, bè, fu un’esperienza piuttosto carina. Ma in genere preferivo mantenere le distanze. L’occhio del fotografo deve rimanere estraneo per essere sincero».
Non tenne molto le distanze con Faye Dunaway, il mattino dopo l’Oscar…
«In quel caso, lo ammetto, aiutò essersi svegliato accanto a lei. Una rivista mi aveva mandato a seguire gli Oscar. Sapevo che le foto alla cerimonia sono sempre tutte uguali. Cercavo qualcosa di speciale, che desse il senso di cosa significa ritrovarsi quella statuetta fra le mani. E il mattino dopo, in albergo, mentre Faye faceva colazione dopo aver letto i giornali con il resoconto della serata, mi passò davanti l’attimo fuggente. Era il momento in cui si rendeva conto che niente sarebbe stato più come prima, che era diventata una star e una milionaria. Ma nel suo volto si coglie anche un’ombra di malinconia, per tutta la fatica precedente, gli sforzi non riconosciuti, l’insensatezza di essere sempre la stessa persona eppure valere molto di più. Penso immodestamente che sia la foto più bella mai scattata agli Oscar. Ne sono ancora molto orgoglioso».
Con Faye come va?
«Siamo rimasti amici, abbiamo un figlio insieme. Ma sposarla fu un errore. Non amo le luci della ribalta e come marito di una star sei sempre sotto i riflettori».
C’è un segreto per il ritratto perfetto?
«No. Tutta una questione di istinto».
Quale è stato il soggetto più difficile da fotografare?
«Steve McQueen. Avevamo appuntamento, ma cacciò a calci dalla stanza me e il press agent. Era di cattivo umore. Io però cominciai a scattare appena entrato e una foto a casa la portai lo stesso».
Qualcuno che vorrebbe fotografare e non l’ha fatto?
«Ho fotografato tutti quello che volevo. E poi non ci sono più le grandi star di una volta. La Kardashian non m’interessa».
Se la immaginava una vita così?
«Non lo immaginavo io e non lo immaginavano nemmeno quelli che fotografavo. L’altro giorno ho incontrato Bill Wyman, l’ex-bassista dei Rolling Stones, e mi ha detto: “Ricordi quando nei primi anni Sessanta andavamo tutti insieme al pub e ci chiedevamo che lavoro avremmo fatto quando tutto questo sarebbe finito?”. Ebbene, incredibilmente non è mai finito».