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 2016  maggio 01 Domenica calendario

Del Vietnam è rimasta soltanto terra, di Emirati Arabi, Qatar, Kuwait, Cina, Francia, Gran Bretagna e Cile più nulla. Ecco cosa resta di Expo

U n anno fa non c’era tempo per dormire. Quattromila persone lavoravano senza sosta per arrivare pronti al taglio del nastro; una cinquantina di camion dell’Amsa andavano avanti e indietro per portar via masserizie e immondizia; i furgoncini degli allestitori erano fermi davanti ai padiglioni per le ultime consegne; i bar e i ristoranti stoccavano casse di viveri nei magazzini. Un anno fa Romano Bignozzi era stato svegliato alle cinque dall’allora commissario Giuseppe Sala: «Andiamo a fare un giro». Poco conta che un giro si fosse fatto anche la sera prima e che anzi fosse un girare continuo a verificare che tutto funzionasse. Bignozzi, che a 78 anni era l’unico tranquillo perché di corse così ne aveva viste tante in cantieri di tutto il mondo, tra una sfuriata e l’altra agli operai che non tenevano il ritmo, rassicurava Sala. E arrivò l’alba del primo maggio. E fu l’Expo.
Anche adesso, un po’ come allora, stanno facendo le corse per finire. In proporzione, certo. Anziché quattromila operai quattrocento, ed è già detto tutto. Ma anche oggi, primo maggio, ci sarà un concerto e una cerimonia da fare. Almeno per celebrare quella di allora. E il 25 ci sarà la riapertura vera, per l’avvio dell’Expo parte seconda. Così anche ora ci sono ruspe che scavano e gru che si muovono. Per finir di cancellare quel che deve sparire e cominciare a montare quel che va riallestito. E la sostanza è che rientrare qua dentro, per chi ci aveva vissuto sei mesi ogni giorno, è un po’ il tuffo al cuore che si immagina.
All’ingresso di Fiorenza dove a ottobre la gente si accalcava non ci son più neanche i tornelli. In compenso ci sono le cupole che l’architetto Michele De Lucchi aveva progettato per ospitare il media centre e ci sono alcune delle statue di Dante Ferretti che accoglievano i visitatori: non tutte, qualcuna l’hanno venduta, un paio sono a Malpensa. Il Padiglione Zero è chiuso e inavvicinabile. Rimossi gli oggetti avuti dai musei e i monitor con video e le immagini della Borsa, mentre gli animali in gesso di cui si era innamorata Angela Merkel sono ancora lì incellofanati. Salve anche le «vele» del decumano, quelle maxitende che hanno regalato un po’ di respiro in quei luglio e agosto caldissimi. Poi cominci a camminarci adesso, lungo quel chilometro e trecento metri su cui si affacciavano i padiglioni. E vedi quello che non vedrai più.
Dove c’era il Vietnam e la gente andava a comperare i capellini diventati un must di Expo c’è soltanto terra. Del Bahrain sono rimaste le pareti esterne. Stanno smontando i pannelli del negozio Oviesse. Sventola sbiadito lo striscione di «Casa Algida», ma dietro è il deserto. È invece intatto il padiglione del Nepal: pare ci siano trattative in corso con un acquirente che vorrebbe comprare in toto quelle colonne intagliate a mano. La Caritas arriverà a giorni per l’ultima demolizione, il Brasile sta smontando la rete su cui hanno saltato le figlie di Michelle Obama, le sfere dell’Azerbaigian sono ancora integre. I cluster (così come le stecche di servizio) sono integri ma vuoti. All’incrocio con il decumano le Ali progettate da Daniel Libeskind sono già state smontate e verranno rimontate in Germania, dalla Siemens.
Di Emirati Arabi, Qatar, Kuwait, Cina, Germania, Olanda, Francia, Gran Bretagna, Cile e di altri ancora non è rimasto nulla. Alcuni hanno demolito e buttato, altri hanno trovato nuova destinazione. Gli Stati Uniti no, loro non hanno ancora smontato nulla e anche il Turkmenistan ha fatto sapere di essere disposto a regalare la struttura. Lo spazio di Slow Food non è ancora chiaro se e come potrà essere riutilizzato.
Il cantiere è comunque ordinato e pulito, già organizzato per poter consentire l’utilizzo futuro di una parte del cardo. Il Children Park non è stato smontato e con una gara ne verrà affidata la gestione. Poi c’è l’Albero della Vita: l’impianto che portava luci, musica e giochi di acqua è stato smontato e si stanno cercando gli sponsor che, con circa 900 mila euro di spesa prevista, potranno riaccenderlo dal 25 maggio quando Expo aprirà per l’Esposizione della Triennale. Ma sono tanti soldi.
Il giro finisce qui. Anzi, no. Alla fine, la cosa più bella di questa Expo è il verde che è rimasto: intorno al canale artificiale che era stato creato e lungo la cinta che per sei mesi è stata presidiata dai militari, sono distese di papaveri e fiordalisi. Gli alberi, i 12 mila piantumati per l’occasione, sono cresciuti e sono più folti: hanno trovato la loro collocazione e si sono integrati nel paesaggio come se fossero sempre stati qui. Non ci sono ruspe e gru che tengano: il verde di Expo, almeno quello, rimane.