Corriere della Sera, 1 maggio 2016
«Cosa non sono riuscito a fare...». Dubbi e rimpianti di Giorgio Squinzi, presidente uscente di Confindustria
Quattro anni difficili con un’Italia che aveva da ricostruire una immagine. Un’industria alle prese con le conseguenze di una crisi che richiedeva il rimettere al centro le imprese e non la finanza. Dal 2012 a oggi 3 governi. Una nuova Commissione europea e soprattutto un’Unione indebolita. Il mantra del rigore che solo da qualche mese ha lasciato il posto nelle priorità alla crescita. La diversità di vedute sui contratti che prima della sua presidenza avevano portato la Fiat a uscire da Confindustria. E quest’ultima da far tornare a essere protagonista nonostante la cosiddetta eclissi dei «corpi intermedi». Un sindacato con problemi di rappresentatività e timoroso di innovare. Un quadro non facile per Giorgio Squinzi che il 23 maggio del 2012 prendeva la guida dell’associazione degli imprenditori che alla fine del mese passerà a Vincenzo Boccia. Da imprenditore qual è, è portato a individuare problemi e soluzioni per non ostacolare la crescita del Paese, più che i risultati della sua presidenza.
Nelle ultime settimane, perlomeno in privato, ha spiegato che lascerà Confindustria con due dispiaceri, quali?
«Guardi, stiamo festeggiando il Primo Maggio, a volte qualcuno fatica a capire che sia anche la festa degli imprenditori. Io sono il primo a entrare in azienda e l’ultimo a uscire. Mi sento il primo collaboratore del gruppo che con la mia famiglia abbiamo costruito. Pensare di non essere riuscito a fare un accordo con il sindacato per nuovi modelli contrattuali è il mio cruccio. L’idea che mentre il mondo cambia velocemente noi non ne seguiamo i ritmi nuovi, lo vedo come un danno per i lavoratori e le imprese».
Dove si è arenata la trattativa?
«Semplice: ci siamo confrontati ed eravamo a un passo dall’accordo. Poi è mancato l’ultimo colpo di reni per balzare nel futuro. Peccato».
Ma i sindacati accusano Confindustria...
«Non è vero. Vada a rivedere le cronache di quei giorni. La mia storia è quella di un imprenditore che nella vita associativa ha sempre ascoltato e trovato soluzioni condivise. Che sia un uomo del dialogo mi pare l’abbiano detto in tanti. La verità è che il mondo che cambia disorienta molti, sindacato compreso. Chi mi conosce sa che provo sempre ad essere concreto. Oggi sembra quasi scontato che la Pubblica amministrazione paghi i suoi debiti alle imprese. Quattro anni fa non era così…».
Veramente pare stia risalendo.
«È vero che ci sono segnali in quella direzione. Sarà compito di Boccia non abbassare la guardia. Di sicuro l’arretrato nel 2012 era di circa 90 miliardi oggi ne sono stati stanziati 56,3 ed erogati 38,6. Le assicuro che molte imprese se ne sono accorte».
È un grazie a Renzi?
«I governi, anche prima di Renzi, hanno contribuito. Però il grazie più sentito lo devo all’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano che si espresse pubblicamente a favore del recepimento della direttiva europea. Era il 18 marzo del 2013».
Già, ha visto tre governi. Ce n’è stato uno in particolare più vicino alle imprese?
«Monti e Letta sono state due esperienze molto brevi. Con Renzi il lavoro è stato più assiduo e costruttivo. Ma dire che la situazione politica non mi preoccupi sarebbe sbagliato. La crescita dei 5 Stelle, Forza Italia che si indebolisce, il Pd attraversato da un evidente malessere creano una situazione potenzialmente instabile. E questo mentre alcune cose sono state fatte e bene, come la riforma della Pubblica amministrazione».
Confindustria renziana?
«Difficile pensare ad una omologazione di Confindustria. La verità è che sono state recepite molte delle nostre proposte: dalla legge Madia (e in essa la riforma della Conferenza dei servizi, la semplificazione, la razionalizzazione delle aziende locali), alle misure sugli investimenti, la delega sul Fisco e l’assurda Imu sui macchinari, il credito di imposta, il super ammortamento e molto altro. E il grande lavoro che si è fatto con le tante missioni all’estero che hanno aiutato e aiuteranno il Made in Italy. Però da qui a dire che è tutto a posto ce ne passa. Molto dipenderà dall’attuazione delle riforme, la strada è ancora lunga».
Ma come, e il Jobs Act?
«Quando arrivai in Confindustria dissi che la madre delle riforme era quella della PA. Tutt’altra storia quella del Jobs Act».
Cos’è che non sappiamo del Jobs Act?
«Ma no. Vede, con quella legge si è ottenuto un risultato straordinario con l’abolizione dell’articolo 18. Ma andava ridotto lo scontro ideologico che si era creato attorno a quel tema che in passato era stato così potenzialmente divisivo. Così come è straordinario l’accordo raggiunto sulla rappresentanza con i sindacati: atteso da oltre 70 anni. Durante la mia presidenza ho imparato a conoscere ancora più a fondo il nostro meraviglioso Paese. Ho fatto 258 assemblee in ogni angolo d’Italia. È stata un’esperienza entusiasmante che tra le altre cose mi ha fatto comprendere che resiste ancora nel Paese una cultura anti imprese».
Veramente, almeno a parole, vengono corteggiate da amministrazioni locali e governo...
«Spero che si sia capito finalmente che a creare il lavoro e la crescita sono le imprese. Siamo andati in 7 mila imprenditori in udienza dal Papa per il Giubileo proprio per dare la nostra testimonianza di quanto l’impresa è oggi un fatto sociale. Ma da qui a dire che venga vissuta come un patrimonio dell’Italia ce ne passa. Come Mapei lavoriamo in 34 Paesi e devo dirle che i problemi maggiori li abbiamo qui».
Ma perché, quali sono gli ostacoli?
«Quando le parlavo della riforma della PA è esattamente questo. Burocrazia, atteggiamento generale contrario allo sviluppo. Il mio gruppo ha 70 stabilimenti nel mondo di cui 8 in Italia. Di questi, i due più grandi, per ampliarne uno tra un permesso e l’altro abbiamo dovuto attendere 8 anni; per raddoppiare l’altro che è al Sud di anni ne abbiamo aspettati 7. Le sembra un Paese che sta al fianco delle aziende?».
Il governo Renzi si è fatto punto di merito del fatto di cambiare atteggiamento nei confronti degli investimenti e non solo. Così non è stato?
«Fatta una legge si è a metà dell’opera. Si deve fare in modo che la sua applicazione sia coerente con lo spirito della legge. Che regolamenti e decreti vengano varati e attuati facendo in modo che i giudici non siano costretti a interpretare, con conseguenze per l’industria e lo sviluppo».
Si sta riferendo all’Ilva?
«Non particolarmente. Anche se la situazione lì è molto confusa. Una cosa è certa, non si pensi che l’Italia industriale possa essere la stessa senza l’Ilva. Non è la stessa cosa ordinare un laminato a Taranto o telefonare a Shanghai, per un Paese manifatturiero come il nostro sarebbe una perdita senza precedenti».
Qual è il secondo cruccio che non ci ha ancora detto?
«Quello di non avere risanato completamente il gruppo Sole 24 Ore».
È per questo che è passato da Confindustria alla presidenza del Sole?
«In molti mi hanno chiesto di assumermi questa responsabilità, io stesso mi ero preso questo impegno quattro anni fa. Sono un uomo di parola e così ho accettato la sfida. Benito Benedini ha fatto bene ma manca l’ultimo miglio: garantire al Sole quell’indipendenza economica che è garanzia unica dell’indipendenza del giornale».
Si parla di alleanze possibili.
«Al momento non le vedo. Quello che vedo è una base importante, il Sole è un gruppo consolidato. Abbiamo tutte le carte a posto per farcela. Un po’ come il Paese ha fatto con l’Expo che a pochi mesi dall’inaugurazione sembrava impossibile da realizzare e invece è stato un successo».
Già un anno fa apriva l’Expo alla quale nessuno credeva...
«Quell’esperienza è emblematica della capacità del nostro Paese di recuperare il tempo perduto. Ora dobbiamo farlo con gli altri Paesi europei: possiamo riprenderli e andare al loro passo. Dobbiamo farlo. E proprio l’area dell’Expo rappresenta, grazie a una situazione infrastrutturale unica in Europa, una potenzialità enorme che non si deve perdere».
Anche gli imprenditori devono fare la loro parte. Molti hanno preferito vendere all’estero.
«Preferisco pensare alle tante eccellenze del nostro Paese, come per esempio la meccatronica emiliana. La ricetta per me non cambia: non ho mai speculato finanziariamente, preferendo sempre reinvestire nel mio gruppo. E le assicuro che ragionano così la maggioranza degli imprenditori. E mi fa piacere constatare che nelle nuove generazioni qualcosa va in questo verso. I giovani italiani sono preparatissimi e contesi all’estero e comprendono l’importanza di lavorare nelle imprese. E allora penso con ottimismo che stiamo per arrivare a tagliare il traguardo di nuovi successi per il nostro Paese».