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 2016  aprile 29 Venerdì calendario

Campioni, bidoni, magie e talenti sprecati nel libro di Flavio Tranquillo sull’Nba

Un giocatore, un allenatore, un arbitro, un manager e un criminale formerebbero già così un bel quintetto di storie, ma siccome nel basket esistono i cambi, penetra sulle pagine di Basketball R-evolution, fresco d’uscita per Baldini e Castoldi, pure un variegato resto del mondo. Flavio Tranquillo lo racconta con nozione e passione, passando non per la prima volta alla pagina scritta dagli schermi di Sky, dov’è la voce primaria della Nba, seguita da un pubblico devoto. Servirà sapere com’eravamo per capire come siamo, sostiene, riannodando storie rimaste fuori dalla cabina tv, o entrate a spezzoni, nei tempi morti di partite scontate, e insaporendole con continui “tagli”: dal gioco alla società, alla politica, al costume.
Si viene invitati a perdersi, per esempio, dentro una Harlem anni ‘20, seguendo vita e opere di Bob Douglas, manager caraibico d’arte varia che allestì la prima squadra di soli neri. Percepita oggi come lega di fortune avvinte ai suoi assi di colore, il 70% dell’odierno personale in campo, la Nba ebbe fino ai ‘50 un volto solo bianco. Eppure, quel tale Douglas un varco l’aveva aperto, stando alla cassa di una balera in cui, negli intervalli fra danze sfrenate e canzoni di Cab Calloway, un pubblico raccolto intorno a una curiosa gabbia metallica poteva godersi una partita di basket. Renaissance si chiamava il locale, Rens «la più grande squadra di cui non abbiate mai sentito parlare»: parola di Kareem Abdul Jabbar, pivot da leggenda, ma qui cronista di storie in cui i neri sfidavano i pallidi Original Celtics e, usciti di lì, di quello vissero per 26 anni, viaggiando sullo sgangherato bus Oca Blu per esibirsi ovunque, e non solo nelle pause dello swing. Poi, se la storia vi ricorda gli Harlem Globetrotters, non sbagliate: fra le tante squadre generate dall’età del jazz, gli allegri eversori dei poveri Washington Generals furono la versione più giocosa.
Tornando alle radici, Tranquillo ripesca pionieri, ossia chi fece per primo ciò che ora ci scorre davanti come un film naturale. Kenny Sailors era troppo più basso di suo fratello Bud per non doversi inventare qualcosa che sviasse i loro uno contro uno nella fattoria da un’infinita sfilza di stoppate. E venne il tiro in sospensione, a librarlo fra i grandi della Nba e le fantasie dei reporter (“il tiro del canguro”), profeta di prodigi, se la linea retta che parte da quel cortile del Wyoming arriva oggi, quasi un secolo dopo, ai miracoli balistici di Steph Curry. Oppure, ecco Pete Newell, il più grande dei coach, che teorizzò principi ancor oggi applicati, e guidò pure ai Giochi di Roma ‘60 una fantastica edizione di Usa Team. O, ancora, un grande arbitro: collerico e incorruttibile, Earl Strom insultò in carriera dirigenti e atleti, tecnici e tifosi, fischiò in una finale Boston-Phila con un braccio al collo, lascito di una rissa precedente, eppure tutti volevano lui a dirigere. E infine, mentitore seriale, scommettitore compulsivo, venditore di partite truccate e amorale assoluto, Jack Molinas sarebbe stato un campione, non fosse stato tutto ciò che precede, finchè la sua azzardata parabola si spense, molto più corta che sul primo ferro.