il Fatto Quotidiano, 14 aprile 2016
Doina Matei è tornata in carcere perché ha sorriso troppo su Facebook
Il populismo penale che imperversa nella macabra e patibolare Tv del pomeriggio è niente in confronto a quello di stampa e Internet. Sì, ogni tanto ce la prendiamo con ministri corrotti, presidenti del Consiglio frodatori, banchieri ladri, ma a noi italiani massimamente piace infierire su mamme assassine, poveri cristi, delinquenti di periferia. Se sono stranieri, poi, ci si stura un’indignazione lungamente decantata, il barrique di un sadismo tenuto a freno da una congenita tendenza ad abbozzare coi forti e a macellare i deboli.
L’ultima: Doina Matei, la 30enne rumena che ammazzò una coetanea nella metro di Roma con un ombrello, in regime di semilibertà dopo aver scontato 9 dei 16 anni di carcere a cui fu condannata, viene beccata su Facebook da solerti segugi socialari mentre posa al mare. I giornali rilanciano le foto, rubate dal profilo della ragazza (registrato con uno pseudonimo, ma noi siamo maestri anche nell’arte della delazione); i parenti della vittima assassinata, il cui dolore viene rinnovato, gridano il loro sdegno; la brava gente italiana partecipa alla lapidazione morale sui social, e la persona in semilibertà, chiamata icasticamente “killer” per rendere il contrasto col suo bikini mediaticamente più efficace, torna, per decisione del giudice di sorveglianza, persona priva di libertà.
Non si sa ancora se nell’ordinanza esistesse un divieto di bikini, o di foto al mare, o di uso di Facebook. Il fatto è che la storia, che potrebbe essere persino edificante in un Paese evoluto (“A Venezia ho visto finalmente il volto buono della giustizia e un’Italia accogliente, che non emargina”, ha avuto l’impudenza di dire la detenuta), sconvolge i più sensibili, per i quali la rumena resta un’assassina che se la spassa alle nostre spalle.
“Nove anni dopo, già fluttua in semilibertà tra i canali di Venezia e sul suo profilo Facebook posta foto di se stessa sorridente al mare”, dice Massimo Gramellini nel suo Buongiorno. “Fluttua”, non cammina. È dotata, secondo Gramellini, della qualità che è delle creature celesti o degli impuniti, quella di sollevarsi con fatua arroganza sui comuni mortali, loro sì innocenti, investita dal sacro raggio della rete che tutto purifica. E non nel tempo giusto, concessole dal diritto, ma “già”.
E al mare: comodo così, basta ammazzare qualcuno, scontare la pena e poi si va al mare. Quanto l’avrebbe tenuta ancora in carcere, Gramellini, non si sa. Ma le “foto di se stessa sorridente” sono irricevibili. Badate: “Doina Matei ha tutto il diritto di essere contenta, visto che la legge glielo consente” (qui pare di cogliere un sottinteso: perché fosse per noi…). La condanna ulteriore, la sur-condanna, non viene in punta di diritto, dunque, ma da una smagliatura di stile, che non permetterebbe mai a Gramellini, per dire, di invitare Doina Matei a Che tempo che fa, di leggerne la storia con gli occhi lucidi in uno dei suoi educativi sermoni.
Ma Gramellini, che in un libro faceva l’angelo e dunque s’intende di perdono e redenzione, ha il merito di esprimere in italiano quello che tanti commentatori hanno chiesto sbavando nel linciaggio online: “Ma ha diritto di mostrare la sua contentezza al mondo, e quindi anche ai parenti della vittima, attraverso un social network?”.
Ecco il punto. Se la ragazza avesse mostrato al mondo quanto è infelice, quanto l’esperienza del carcere l’ha annullata come individuo, se avesse pianto in Tv mostrando addosso i segni della nostra vendetta (di cittadini incensurati e italiani), se non si fosse fotografata al mare ma in dure zone carsiche, o in riva al Gange, o in qualche periferia degradata, beninteso senza sorridere, anzi vietandosi l’uso dei social network in quanto persona marchiata, destinata all’invisibilità e all’afonia, questo mondo, per Gramellini e quelli come lui, sarebbe di certo migliore.